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La sindrome di Stendhal, per chi non lo sapesse, è una strana affezione che provoca una serie di sintomi, per lo più psicosomatici, che vanno dalla tachicardia al capogiro, in soggetti che si trovano di fronte ad un’opera d’arte d’incomparabile bellezza. Tale definizione trae origine appunto da un episodio che colpì lo scrittore Stendhal che, durante un viaggio in Italia, uscendo dalla basilica di Santa Croce a Firenze, fu colpito da un’emozione talmente forte da procuragli un momentaneo sbandamento.

La sindrome viene chiamata anche di Firenze, proprio per le bellezze artistiche che in questa città sono custodite e che rappresentano e simboleggiano tutta l’Italia. Non è mia intenzione perdermi nella retorica dell’autocelebrazione del nostro Paese, culla del Rinascimento e vetrina di opere d’arte tra le più belle e pregiate al mondo. Voglio ricordare, però, che i nostri monumenti, le nostre imponenti basiliche, i dipinti, le sculture perfette, i rosoni magici e le atmosfere delle nostre chiese commuovono ogni giorno turisti di tutto il mondo, rinnovando quell’affezione psicosomatica che colpì per primo – almeno ufficialmente – il grande scrittore francese.

Ma se ancora è possibile tanta emozione, perché, in occasione delle gite scolastiche, i nostri alunni, pur giocando in casa, sembrano essere immuni da tanta bellezza? Sono anni che accompagno nei viaggi d’istruzione classi di vivaci e intraprendenti adolescenti e ho l’opportunità di osservare un interesse che non esito a definire scarso, nei confronti dell’opera d’arte. Se la prima reazione da parte mia – lo confesso – è di delusione, o, se si preferisce, di orgoglio professionale profondamente ferito (dalla constatazione di non aver stimolato nella maniera dovuta i miei allievi), a mente più serena mi concedo qualche interpretazione meno impietosa.

È innegabile, comunque, che sul banco degli imputati, a fronte della varietà di stimoli che giungono da più direzioni ai giovani, stanno scuola e famiglia. La scuola, da un lato, compressa nelle sue aule pollaio, immolata a un risparmio selvaggio che ha ridotto le ore della cultura, penalizzata, suo malgrado, da una discontinuità d’interventi sempre più precari, non riesce a sensibilizzare in profondità gli studenti. Non riesce a educare, cioè, nelle forme dovute, al bello, inteso nel senso classico del termine, come maestosità, armonia delle forme, perfezione, equilibrio. Forse non tutti sanno che gli interventi dei professori, nella scuola, non si riducono esclusivamente alla lezione frontale o alla lettura, magari, di libri ostici e di difficile interpretazione. L’approccio degli insegnanti è spesso di tipo pluridisciplinare e si avvale spesso di una molteplicità di mezzi interattivi, non lontani dalla quotidianità tecnologica dei ragazzi. In ogni caso, si è impotenti di fronte a tanta – per così dire – freddezza di emozioni e a tanto analfabetismo culturale che gli alunni ci restituiscono. Guai, comunque, ad abbassare la guardia e ad arrendersi.

Tempo fa, Neil Postman, un sociologo americano che si è occupato anche di educazione, sosteneva che la scuola svolge un’importante funzione di termostato. Quanto più diseducativi sono gli stimoli che giungono dall’esterno, tanto più termoregolativo deve essere il suo intervento: anche quando le famiglie mostrano la medesima insensibilità dei loro figli, a cui gli insegnanti si sforzano di rimediare. Tutto ciò sembra funzionare, in teoria. In pratica però tale operazione risulta estremamente difficile.  Se nell’educazione al bello di un adolescente predominano, sin dalla più tenera età, le labbra carnose e le curve ridondanti di vallette in odore di politica, i pettorali e i tatuaggi di spregiudicati “tronisti” pronti a tutto, o le lunghe gambe della velina di turno, è molto improbabile che egli poi si commuova di fronte alle guglie del Duomo che graffiano il cielo grigio di Milano, ed è ancor più difficile che lo colpiscano le penombre delle navate della basilica di  Sant’Ambrogio.

Non ci dimentichiamo che i nostri figli sono enormemente condizionati da quello che facciamo, diciamo e pensiamo.  E proprio per questo, se li amiamo, varrebbe la pena che noi accettassimo con umiltà dei cambiamenti che, oltre ad allargare i nostri e i loro orizzonti culturali, potrebbero sortire l’effetto di dare nutrimento alle loro anime.