Il dolore e la sofferenza sono condizioni umane che spaventano tutti. A volte diventano dei tabù. La morte di un figlio è uno dei tabù più innominabili della nostra società. È un’esperienza il cui solo pensiero fa rabbrividire, tanto che si preferisce rimuovere e, solo raramente, rientra nei nostri racconti quotidiani. L’atto di rimozione è, però, un esercizio che reca in sé una profonda ingiustizia nei confronti di chi viene a mancare. Se si riflette attentamente, il contraltare della morte è la vita, con le sue molteplici offerte. Calare un velo sulla morte di una persona giovane equivale molto spesso a sbiadirne i ricordi, fino a perdere le tracce di una memoria.
Ma un figlio è un figlio. E la sua morte è un evento tanto atroce quanto pervasivo, che muta in maniera definitiva la vita di un genitore. Il quale non sa e non vuole rimuoverne il ricordo. E’ inevitabile, comunque, che nel percorso luttuoso diventino necessari, per ragioni di mera sopravvivenza, un progressivo distacco e una razionalizzazione degli eventi. Se non altro per tenere a bada la follia, che è sempre in agguato. Col tempo, poi, la mappa dei ricordi si alimenta di momenti, di aneddoti, di istantanee che rendono meno devastante il lutto. Testimonianze di un regalo di cui si è beneficiati. Sia pure per un tempo ingiustamente breve. Ecco allora che il ricordo di quella vita e di quell’amore può essere condiviso e raccontato. E farsi nuova vita.
Sono queste le considerazioni che ho fatto nell’apprendere l’ennesima notizia della morte di un ragazzo di tredici anni (non importa precisare dove, come e perché). È successo. E questo fatto ha completamente ribaltato l’ordine delle priorità dei suoi genitori. Ha sconvolto la loro quotidianità. E rischia di sgretolarne i rapporti. Questi genitori, però, presto o tardi, dovranno fare i conti con la vita che, prima o poi, tornerà a bussare alla loro porta e che insegnerà loro che quella breve esistenza, sia pur interrotta tragicamente, è stata un dono unico e insostituibile.
Ho conosciuto, purtroppo, lavorando a continuo contatto con gli altri, non poche persone che hanno vissuto questa esperienza estrema. E che, lentamente, faticosamente, imparando a proprie spese quello che con una formula un po’ inflazionata definiremmo “senso della vita”, hanno ricominciato a vivere. Talvolta nella più completa solitudine.
Siamo, infatti, tutti impotenti di fronte all’immensità della sofferenza. E siamo incapaci di dare conforto a chi subisce una perdita così atroce. Ne siamo terrorizzati e ne rifuggiamo quasi fosse un virus contagioso. Forse perché la nostra società, fatta di figli unici e di pianificazioni familiari, fatta di frizzi e lazzi, priva della cognizione del dolore e incentrata sui miti della bellezza e dell’eterna giovinezza, è impreparata alla morte. E non è capace di stringersi intorno al lutto, di capirlo, di elaborarlo. Lo evita, piuttosto.
Bisogna invece tener presente che l’infelicità, la malattia, la morte, il dolore non sono un imprevisto, un’eccezione, un capriccio del destino, ma rappresentano la vita stessa. I tabù, per continuare a vivere, devono essere infranti. Solo così la vita diventa più forte della morte.

Laureata in filosofia, ha insegnato Lettere in una scuola secondaria statale in provincia di Milano. Scrive su alcune testate locali dove si occupa di scuola, libri, politica e costume. Ha pubblicato tre romanzi: “Criada” (Astragalo, 2013), “A due voci” (Leonida, 2017), “Fatale privilegio” (ilTestoEditor, 2023)