A quanti genitori, da un giorno all’altro, a un certo punto della loro vita, sarà capitato di sentirsi dire dal proprio figlio quanto segue? “Mamma, papà, stasera esco con i miei amici, non potete più costringermi a venire a cena o al cinema o a fare la spesa con voi. Il problema è che mi annoio. Sono stanco di sentire le solite conversazioni impegnate di politica o di attualità. Sulla crisi e sullo spread. Non digerisco il moralismo dei vostri sermoni sul rispetto, sull’ascolto e sulla solidarietà. Non ne ho bisogno, so quello che faccio. E poi, non me ne vogliate, ma siete antichi. Usate un linguaggio preistorico. Cercate di capirmi. Malgrado mi riteniate un bambino, io sono cresciuto.”
A quanti sarà capitato? A tanti, suppongo.
Naturalmente, ho usato una modalità un po’ iperbolica, e forse un tantino letteraria, per esprimere una realtà che, prima o poi, capita ad ogni genitore. I figli, arrivati alla famigerata età dell’adolescenza, cominciano a prendere le distanze da mamma e papà. Si congedano dall’infanzia e da quella dolce dipendenza che i genitori, egoisticamente, vorrebbero non finisse mai. Semplicemente perché non sono pronti. Non hanno ancora acquisito l’abc dello svezzamento e non riescono a mandar giù il fatto di non essere per i propri figli i soli punti di riferimento esistenti su questa terra.
A volte questo distacco avviene in modo traumatico. A volte subdolo. A volte graduale, lento e indolore. Certo è che se l’età dell’adolescenza è difficile per le incertezze, le paure, il salto verso un futuro che per i giovani si fa sempre più minaccioso, ancora più difficile è la condizione di tanti genitori che, a poco a poco, devono imparare a farsi da parte, devono imparare ad accettare quei vocioni che si trasformano, quei corpi che si modellano e quelle teste che iniziano a ragionare in modo adulto. Era così bello prenderli sulle ginocchia e farsi travolgere da quella rumorosa vitalità! Il distacco sembra talvolta strappare l’anima. Sono tanti i genitori che non riescono a separarsi dai propri figli, dopo che ogni molecola del proprio essere si è concentrata su di loro, da quando sono nati. Sul loro benessere, sui vagiti e sugli starnuti, sulle prime lallazioni, sulle prime parole buffamente contraffatte e sulle prime frasi miracolosamente perfette. Hanno palpitato, gioito, pianto, accompagnandoli nella crescita e condividendo con loro ogni emozione. Adesso devono convertire il proprio mestiere, trasformando – senza mai azzerarlo – il proprio ruolo di guida. Che, a fronte di tutto, rimane. Devono, in poche parole, imparare ad offrire un supporto silenzioso ma sostanziale a dei soggetti che, comunque, hanno ancora tanto bisogno di loro.
Non sempre si hanno gli strumenti per capirlo e per mettere in atto delle strategie pacifiche di cambiamento. Si oscilla dai regimi repressivo-polizieschi, instaurati di fronte alla prima sigaretta o alla prima birra, all’anarchia più assoluta, pseudo-libertaria, ma nondimeno deleteria. Non ci sono ricette né regole. Occorre solo buon senso. E tanto, tanto coraggio. Parola di mamma!

Laureata in filosofia, ha insegnato Lettere in una scuola secondaria statale in provincia di Milano. Scrive su alcune testate locali dove si occupa di scuola, libri, politica e costume. Ha pubblicato tre romanzi: “Criada” (Astragalo, 2013), “A due voci” (Leonida, 2017), “Fatale privilegio” (ilTestoEditor, 2023)