L’intervento di Annalisa Martino che mi ha preceduto su Luminosi Giorni esprime bene e con immediatezza ciò che gran parte dell’elettorato del Partito Democratico ha provato, soprattutto sul piano emotivo, nelle recenti vicende politiche italiane: disagio, delusione, indignazione. Sentimenti che questo elettorato continua a provare per un governo, quello cosiddetto di larghe intese, in cui, con sfumature anche diverse e per ragioni diverse, stenta a riconoscersi. Probabilmente se raccogliessimo un migliaio di umori degli elettori PD e ne facessimo una sintesi perfetta ne uscirebbe proprio lo sfogo a cui Annalisa dà corpo e sostanza. E’ per questo utile tenerlo presente perché esso esiste e bisogna farci comunque i conti anche se, come per tutte le espressioni umane, è lecito poterlo criticare. Lei in più va oltre lo sfogo pessimista e si intravede nelle sue parole la speranza che la ribellione giovanile dal basso all’interno del PD, ormai nota come ‘occupy PD” possa cambiare radicalmente il partito che oggi più è nella bufera.
Andrebbe aggiunto che questa di ‘occupy’ è la protesta interna, ma mi pare di poter dire che si tratta solo di una delle manifestazioni di opposizione alla conduzione del partito che vanno ad aggiungersi ad altre più corpose e profonde che si agitano, magari più individualmente, tra i semplici elettori. E che non pensano ad un’unica via d’uscita.
Per prima cosa pongo una domanda, a me stesso, ad Annalisa, a chi legge: questa protesta spontanea e di base è riconducibile, come Annalisa sembra sottintendere, ad uno schema tradizionale che vede una domanda di più ‘sinistra’ dal basso in contrapposizione a una dirigenza che invece tradisce e disattende questa domanda ?
Nel rispondermi avrei corposi dubbi a rispondere di si.
Lo scenario di un governo con un presidente PD in intesa con il suo avversario, il PDL, non deve trarre in inganno perché in apparenza confermerebbe questa visione e questo schema. La coalizione di governo di cui tanto si parla altro non è che la risultante obbligata di un processo durato parecchi mesi nei quali il PD, e di riflesso i suoi alleati elettorali, hanno perso consenso ( in primis verso Grillo) non tanto per sbilanciamenti a destra o a sinistra, ma per l’evidente arroccamento e perdita di credibilità del suo apparato, espresso e ben rappresentato da Bersani; è bene ricordarlo a tutti i ribelli della tarda primavera: appena nell’inverno precedente con le primarie avete avvallato a larga maggioranza la dirigenza del partito che vi ha portato dritti dritti a questo bel risultato. Fatta la frittata della vittoria monca l’arroccamento ha persino impedito a Bersani di lasciare subito il passo ad un governo Presidenziale diretto da una figura rappresentativa esterna che forse avrebbe avuto consenso più largo di quello attuale.
Diciamola poi tutta: questo apparato, responsabile della disfatta, è stato sostenuto – o yes!- con il voto alle primarie anche dai giovani virgulti che oggi, come svegliati da un sogno, si stracciano le vesti occupando circoli e sedi provinciali. Ma cronache ed esternazioni pubbliche di quei tempi recenti lo possono confermare: erano tutti ben allineati. Quindi la perdita di voti del PD verso Grillo è dovuta esclusivamente al rigetto verso l’opaca partitocrazia delle dirigenze piddine, opaca e arroccata nel potere, dal centro fin nella più remota federazione provinciale, dirigenze che, magari anche in buona ma ottusa fede, i ribelli di oggi hanno allora sostenuto eccome.
Che non si sia trattato di una perdita elettorale verso quella che viene ancora chiamata sinistra è dimostrato dal fatto che non ne ha beneficiato l’unico vero rimasuglio di sinistra conservatrice (Ingroia e li suo raggruppamento altro non sono) bensì una formazione trasversale come il movimento 5 stelle in grado di dire alla rinfusa e contemporaneamente ‘cose di destra-sinistra’ anche opposte tra loro. In definitiva se l’elettore alle primarie invece di mettere la croce su Bersani, l’avesse messa sul più breve cognome a fianco oggi non saremmo costretti a questa umiliante Canossa nei contenuti, che ricorda ed enumera Annalisa e che sono in buona parte condivisibili; perché la coalizione del centro sinistra avrebbe probabilmente vinto alla camera e anche al senato e avrebbe formato un governo omogeneo. Avrebbe vinto anche con molti voti strappati al campo avverso, certo, e di cui programmaticamente avrebbe dovuto tener conto, affiancando a tutti i contenuti sopra ricordati anche altri in grado di ampliare il consenso. L’opposto quindi, se posso dire, della marcata immagine identitaria che Annalisa reclama. Le elezioni si vincono ampliando, includendo, parlando con più voci, battendo più tasti e con più corde, cercando con caparbietà compatibilità tra interessi diversi, evitando di restringersi nel proprio recinto con bandiere identitarie.
Il PD al suo esordio al Lingotto aveva compiuto una scelta di immagine che teneva conto del segno dei tempi. Infatti quell’abbandonare la definizione ‘sinistra’ insito nella sigla DS ( acronimo di democratici di ‘sinistra’) a favore del semplice ‘democratico’, definizione che non necessità di specificazioni, non fu solo una scelta formale. Aveva un preciso valore politico nel creare una nuova identità plurale ampia e non ristretta, non avendo la democrazia, specie se ancorata ai valori della Costituzione, alcuna necessità specificatrice ed essendo perciò bastante a se stessa.
Ciò che un partito democratico di rango nazionale deve fare è evitare di chiudersi in un ghetto identitario. E’ l’unica vera concreta possibilità di vincere qualsiasi elezione, a qualsiasi scala territoriale.
Al contrario la recente manifestazione FIOM che Annalisa invoca come occasione persa dal PD assente – spiace dirlo a quelli che reputo pur sempre compagni di strada – è stata invece precisamente questo: l’espressione di un’identità vecchia che pone paletti, barricate e confini. E non solo per le sigle e per i promotori, sia chiaro, ma anche e soprattutto per i contenuti che la FIOM continua a portare avanti, per quanto non seguita dal resto della CGL. Contenuti che ci propongono una formula di promozione del diritto al lavoro non sbagliata in sé, ma parziale e incompleta, tutta sbilanciata su una linea difensiva che finisce per voler mantenere come garantiti solo coloro che hanno un posto di lavoro, a prescindere da competenza e soprattutto produttività. Ma contenuti che poco e stentatamente dicono o propongono a chi il lavoro non l’ha mai avuto e lo cerca non trovandolo, cosa che, più o meno direttamente, in parte dipende anche dalla situazione di rigidità dei garantiti ‘a prescindere’ difesi dalla FIOM.

Carlo Rubini (Venezia 1952) è stato docente di geografia a Venezia presso l’istituto superiore Algarotti fino al congedo nel 2016. Giornalista Pubblicista, iscritto all’albo regionale del Veneto e scrittore di saggi geografici, ambientali e di cultura del territorio, è Direttore Responsabile anche della rivista Trimestrale Esodo.