Il maggio piovoso di quest’anno sembra riflettere l’umore cupo di tanti elettori della sinistra che, ancora increduli di quanto avvenuto nei mesi scorsi, vivono un disorientamento senza precedenti. C’è chi ricerca una bussola per ricominciare, chi ha congelato le proprie idee in attesa di una proposta decente, chi ha ceduto alle sirene della demagogia, chi ha deciso di chiudere con la politica all’insegna del grido “son tutti uguali”.
Piove tanto, il cielo è plumbeo, l’aria è livida e l’umore degli elettori di sinistra è reso ancor più cupo da un governo che ha decretato la fine di un’identità. I furbi satrapi della destra esultano di fronte alla “fine” dell’antiberlusconismo: era ora che la sinistra non si avvitasse più su questo tema e uscisse dalla sua gabbia ideologica. Era ora che avvenisse un riconoscimento corale delle doti di statista e di padre della patria di un uomo grande ma incompreso. Il governo delle larghe intese ha inaugurato, sì, un periodo di pacificazione. Ma è una pacificazione che comporta un compromesso duro da accettare. Un brutto rospo da mandar giù.
Governare con Berlusconi significa accettare in via definitiva quel conflitto d’interessi che fa dell’Italia una democrazia cieca ed esangue. Governare con Berlusconi significa non poterne affermare l’ineleggibilità. Governare con Berlusconi e accanto ai suoi alfieri significa avallare le manifestazioni eversive contro la magistratura. O quanto meno non azzardarsi a censurarle. Significa accettare i suoi diktat in tema fiscale. E sappiamo come la saggezza fiscale e Berlusconi costituiscano un irrimediabile ossimoro. Significa non poter pronunciare parole di sinistra. Figuriamoci compiere atti di sinistra. Significa dire addio allo ius soli, alla patrimoniale, ai matrimoni gay e alla lotta all’evasione fiscale. Significa sacrificare servizi utili ai cittadini e imporre violenti esborsi al pubblico impiego per assecondare il populismo della cancellazione, se non addirittura del rimborso, dell’IMU.
È palpabile l’imbarazzo di deputati e senatori nelle interviste giornalistiche e nei talk show televisivi quando si chiede loro ciò che pensano sul fisco, sulla magistratura, sul conflitto d’interessi. Diciamocelo pure. Queste larghe intese non sono altro che delle larghe offese a una tradizione, a una cultura, a un apparato di idealità che il PD ha dovuto congelare. E che non può più neanche sbandierare, difendere o rivendicare nella più pacifica manifestazione dei lavoratori, come quella della Fiom del 18 maggio, per paura di ricevere pomodori e uova marce in faccia. D’altra parte, dopo le scissioni, i tradimenti, la muta resistenza all’urlo di protesta della base, non c’era altro sul piatto.
Nello scoramento generale, però, si sentono delle voci. Sono le voci dei giovani del PD. L’esperienza dell’occupazione delle sedi di partito, la cosiddetta “Occupy PD”, ci ha insegnato che c’è ancora un congruo numero di giovani che vuole voltar pagina. E vuole farlo ispirandosi a principi intramontabili di giustizia sociale, di uguaglianza e di difesa dei diritti. Sono giovani che non hanno paura di dire “cose di sinistra”, che non hanno timore di sconvolgere equilibri precari. Sono giovani delusi che, tuttavia, sanno di avere in mano il timone del futuro. Forse era necessaria l’implosione perché emergessero idealità inascoltate? Sarà vero quello che dice il vecchio adagio? Che dai diamanti non nasce niente ma dalle situazioni critiche, e per certi versi oscure e ambigue, dal letame, insomma, nascono i fiori? Io non credo, ma ci spero. D’altronde, non ci resta molto, mi pare.

Laureata in filosofia, ha insegnato Lettere in una scuola secondaria statale in provincia di Milano. Scrive su alcune testate locali dove si occupa di scuola, libri, politica e costume. Ha pubblicato tre romanzi: “Criada” (Astragalo, 2013), “A due voci” (Leonida, 2017), “Fatale privilegio” (ilTestoEditor, 2023)