Circa un anno fa usciva al cinema un film forte e toccante, Terraferma, di Crialese. Un film sul dramma dell’immigrazione e sul coinvolgimento emotivo e sociale che tale fenomeno impone agli abitanti di alcune isole siciliane. Nel film si parla dell’ambivalenza di sentimenti che agita quei posti. Da una parte, la legge ferrea del mare, che impone di salvare chiunque si trovi in pericolo. Un imperativo categorico intriso di moralità e di umanità. Dall’altra, la durezza delle leggi positive che condannano per favoreggiamento all’immigrazione clandestina coloro i quali aiutano i disperati che approdano su coste italiane. Sia pure in condizioni drammatiche. In poche parole, secondo questa legge (la tanto discussa Bossi-Fini) se si presta soccorso a una donna e al suo bambino eritrei, somali o libici senza permesso di soggiorno, che stanno per annegare, ci si trasforma in delinquenti, fautori dell’illegalità.
È evidente che una legge tanto spietata costituisce un deterrente, non tanto per chi arriva, dopo avere attraversato l’inferno, nella consapevolezza di non avere nulla da perdere, quanto per chi potrebbe accogliere, aiutare, soccorrere, ma ne ha paura. Paura per sé, per la propria famiglia, per le proprie sicurezze che, in tempi di crisi, sono sempre più fioche. Se a questo si aggiunge il senso di sconcerto che l’arrivo di una diversità troppo “diversa” e troppo marcata reca in sé, ecco allora che le prove da superare per chi vive su quei meravigliosi schizzi di terra immersi nel Mediterraneo, diventano davvero difficilissime. Difficilissime ma non impossibili. L’umanità, l’altruismo, l’asciutta discrezione di chi sa aiutare senza aspettarsi niente in cambio di tanta gente che vive sul mare sanno imporsi anche laddove mille ostacoli sembrano alimentare l’impulso di sprangare porte e finestre, e togliere dal proprio uscio il tappetino di benvenuto.
Ma non ne voglio fare una categoria antropologica. Non esistono genti di mare e di terra. Esistono persone più o meno generose. Forse, l’arrivo giornaliero di bagnarole contenenti occhietti sbarrati, sguardi stupiti, schiene piegate, seni avvizziti e prosciugati dalla fame, braccia vigorose desiderose di un futuro hanno reso questi isolani più sensibili al dolore e alla sofferenza. E anche più indifferenti a un falso problema di immagine che questi flussi drammatici potrebbero procurare alle isole e al loro potenziale turistico.
La tragedia avvenuta nei giorni scorsi sulle coste di Lampedusa mi ha evocato le immagini di quel film che parla della generosità di una famiglia che mette a repentaglio la propria sicurezza, per aiutare una donna con un bimbo per mano e uno nel grembo. Parla del rapporto di due donne che, pur esprimendosi in lingue diverse, nel pericolo e nella precarietà, imparano a comunicare e ad amarsi. Parla di un vecchio pescatore e del suo giovane nipote ai quali il mare ha insegnato a guardare al di là dei confini territoriali e ad offrire ciò che si ha per salvare la vita di chi è in pericolo. E poi le immagini. Bellissime, toccanti, ricche di significato. Fotografie di pose sorridenti, infradito di plastica, cellulari infilati in cover dozzinali, quadernini, qualche libro, borsette di trucchi. Oggetti inghiottiti da un mare ostile e inabissati insieme ai loro proprietari, che parlano di vite semplici e di speranze, di sogni e di imprese audaci. Troppo audaci, almeno per alcuni, per uscirne indenni.
Quando i giornali e le televisioni hanno mostrato, accanto alle bare, le foto della festa di quei ragazzi che si preparavano a una nuova vita, ho avuto un dejà vu. Hanno mostrato gli abitanti del posto, commossi e affranti per aver visto e toccato la morte di quei poveri disperati. Hanno mostrato l’operatività di volontari che cercavano di strappare al mare dei poveri innocenti. Mi sembrava di rivedere scene di quel film. Un film bello e terribile perché realistico, ma che, alla fine, col suo insegnamento e la sua morale, consola, perché si tratta di un film. Fa riflettere, fa soffrire, commuove. Ma è un film. La tragedia di Lampedusa è andata oltre ogni immaginazione cinematografica. Quella tragedia non è un film. È vera, è reale, così come sono reali quei corpi freddi e pietrificati che il mare ha restituito. E a tutto ciò non c’è consolazione.

Laureata in filosofia, ha insegnato Lettere in una scuola secondaria statale in provincia di Milano. Scrive su alcune testate locali dove si occupa di scuola, libri, politica e costume. Ha pubblicato tre romanzi: “Criada” (Astragalo, 2013), “A due voci” (Leonida, 2017), “Fatale privilegio” (ilTestoEditor, 2023)