Un film, una persona, un leader, un’epoca, un modo di far politica. “Quando c’era Berlinguer” vuol dire tutte queste cose. Un film che non vuole essere una biografia o l’elogio a un uomo, l’esaltazione personalistica di un eroe. Berlinguer era un grand’uomo sì, di grande intelligenza politica e umana. Ma il film è un’altra cosa.
È la foto di alcune svolte importanti della nostra storia. Prima fra queste, l’importanza dell’apertura, del confronto. L’allontanamento da un’ortodossia, quella sovietica, che se da un lato pesava come un macigno in un’Italia marcatamente cattolica, dall’altro si rendeva necessaria per prendere le distanze da crimini indifendibili. Il dialogo con la DC, l’accordo con statisti della statura di Moro davano la cifra dell’intelligenza e della forza intuitiva e strategica di Berlinguer.
Le conquiste civili di una sinistra aperta e moderna. Il divorzio, la legge 194, le numerose vittorie dei lavoratori. Le fabbriche, i cantieri che diventavano luoghi di scambio dove ci si consegnava alla politica, territorio privilegiato di risoluzione dei problemi. E non l’origine dei problemi. E i leader erano persone oneste, semplici ed essenziali, come Enrico Berlinguer, che mai avrebbe accettato un inno a lui dedicato che avesse come refrain “Meno male che Enrico c’è”. I leader incarnavano ideali di giustizia e di uguaglianza. E le parole avevano un peso. Non erano vuoti slogan volti a racimolare consensi elettorali. Erano programmi, intrisi di sogni, di idee, di sentimenti e – perché no? – di utopie. Non di certo formule vuote, bensì progetti di felicità rivolti alla gente e per la gente.
Eravamo ancora in epoca pre-televisiva, pur facendo la televisione parte della nostra quotidianità. Il politico non studiava le frasi d’effetto per stregare le masse, né affinava le proprie tecniche di comunicazione per proporsi come il migliore offerente. Era il megafono di un progetto di miglioramento di vita. E le tribune politiche erano sedi di confronto civile dove ci si ascoltava e dove, semplicemente, si affermava la propria diversità di idee non mediante la prevaricazione, ma attraverso l’efficacia delle argomentazioni.
Questo film è lo specchio di una politica che non c’è più. E di una sinistra che non c’è più. Il funerale di Berlinguer è una scena che si impone in tutta la sua tragicità non tanto perché segna il distacco da un leader che è stato amato, ma perché è l’inizio di una fine. La fine di una sinistra che ha perso il suo slancio originario. Quel funerale segna in modo irreversibile una linea di demarcazione tra anelito alla giustizia e bieco individualismo, tra idealismo e astuto pragmatismo, tra politica incentrata sulla collettività e personalismo sfrenato, tra militanza intesa come veicolo di miglioramento sociale e militanza intesa come mezzo di arricchimento. Personale, naturalmente. Senza alcuna vergogna.

Laureata in filosofia, ha insegnato Lettere in una scuola secondaria statale in provincia di Milano. Scrive su alcune testate locali dove si occupa di scuola, libri, politica e costume. Ha pubblicato tre romanzi: “Criada” (Astragalo, 2013), “A due voci” (Leonida, 2017), “Fatale privilegio” (ilTestoEditor, 2023)