Continuiamo col nostro cono di luce puntato su autori emergenti che si sono fatti notare per originalità e ricchezza di messaggi.
È la volta, questa, di Domenico Vetrisano, giovane scrittore milanese, autore del romanzo “Della Felicità”, edito dalla casa editrice romana C’era una volta.
Che cos’è che rende bello un libro? Di sicuro, la sua capacità di far pensare, il suo potere di indurre alla riflessione, gli squarci che riesce ad aprire nella mente di chi si perde nella storia narrata. E “Della Felicità” è un libro che, indubbiamente, fa pensare. La storia è forte, ricca e tormentata, e, a modo suo, fortemente contestualizzata, pur essendo popolata da uomini senza nome e senza volto, luoghi anonimi e realtà apparentemente senza tempo.
È lo spaccato di una società atomizzata, allineata, depauperata del suo slancio vitale, ferita mortalmente da una crisi che sgretola beni materiali e anime.
Ci sono dei riferimenti, nel tuo romanzo, allo stato attuale dei giovani, costretti dalle circostanze ad accontentarsi e ad accettare le condizioni spersonalizzanti che la nostra società impone? Quali sono queste condizioni spersonalizzanti?
Dico spesso che la mia è la generazione della “Morte dei Sogni” senz’altro profondamente segnata dal crollo dei rapporti interpersonali, ma anche dal lavoro e da uno stile di vita frenetico che non ammette lo spazio per riflettere. Viviamo in una società che richiede, in generale, il non-pensiero o, al massimo, l’accettazione incondizionata e acritica di un sentire comune che si è ormai distaccato da quei valori condivisi che hanno fondato la convivenza civile. Questa accettazione ha creato una generazione di apatici privi di un qualsiasi slancio critico che hanno barattato la loro individualità per sentirsi partecipi e accettati, quasi come fosse il prezzo del biglietto per salire sul treno del futuro.
Il tuo romanzo è la storia di una solitudine addomesticata. La storia di un giovane uomo, costretto dalle convenzioni e dalle necessità, a vivere una vita non sua e a svolgere un lavoro che non ama.
Non viene esplicitato il tipo di lavoro. Tu parli di un mostro di acciaio che inghiotte nel suo grembo, ogni giorno, migliaia di formiche robotizzate. Mentre leggevo, mi è venuta in mente la protagonista di “Tutta la vita davanti” il film di Virzì. Ho pensato a un call center dove laureati sottopagati non solo vivono l’esperienza frustrante di un lavoro sottodimensionato che ne svilisce il valore, ma sono costretti a subire le umiliazioni di capi pagati per esasperarli e metterne in evidenza la mediocrità. Il protagonista, tuttavia, almeno nella prima parte della storia, non si ribella a questa condizione. Non cerca la felicità. Anzi. Teme la ribellione, come se l’eccezionalità venisse condannata e come se gli automatismi che divorano l’esistenza fossero una norma che tarpa le ali ma nello stesso tempo preserva dalle delusioni.
È questa la tua visione della società? È questa la normalità? È questo il destino cui sono condannati i giovani di oggi?
Purtroppo sì. Le vicende del mio protagonista possono vedersi come exempla, a volte quasi paradossali, ma sono ciò che caratterizzano le donne e gli uomini della mia generazione, di mezzo tra quella degli ideali e quella di internet. Viviamo in una zona grigia in cui non troviamo nulla per cui valga la pena combattere e per questo siamo privi di futuro, ormai in mano alla finanza e ai capricci di chi fa e disfa leggi, contratti di lavoro e progetti. Ma non la vedrei come una vera condanna. Per questo ho scritto “Della Felicità”.
Leggendo il tuo libro, ho pensato a un saggio di Galimberti, “L”ospite inquietante”, il nulla che alberga nelle nostre coscienze, in quelle dei giovani in particolare, che cercano, nel potere anestetizzante delle discoteche, nell’omologazione, l’antidoto alla infelicità. Nel tuo romanzo il protagonista anela a una solitudine intimista ma la sua giornata è scandita dallo sferragliare dei tram e dal vociare urlante dei passanti. Pensi che ci siano altri antidoti? Altre possibilità di redenzione?
Il vero antidoto è il pensiero. La redenzione, la liberazione, passano inevitabilmente da noi stessi, da ciò che alberga dentro di noi, ma solo attraverso la riflessione possiamo esplorare il nostro intimo e riscoprirci singoli e non più ingranaggi costretti a girare in una sola direzione solo “perché così è”.
Nel tuo libro la cultura ha un ruolo importante, rigenerante, quasi catartico. Qualcuno fa notare al protagonista che non si mangia coi libri. Ciò che è ritenuto inutile, secondo te – mi par di capire – è invece un grande nutrimento dell’anima. È diffusa secondo te la concezione dell’inutilità della cultura? Il tuo libro vuole scongiurare questo oscuro pregiudizio?
A questa domanda potrei risponderti citandoti un nutrito elenco di uomini e donne che ci rappresentano ai più alti livelli, i quali con le parole e i fatti non hanno fatto altro che demonizzare la cultura o, nei migliori dei casi, considerarla una voce passiva nella bilancia economica. La cultura è fondamentale perché è luce, linfa vitale per la società e per i singoli. Dobbiamo assolutamente attivarci affinché si comprenda che solo attraverso la cultura un popolo può definirsi maturo e consapevole.
Nel romanzo si passa dal cielo plumbeo che di tanto in tanto si intravede dai loculi cimiteriali di uffici anonimi e post-moderni, dalla luce fredda e metallica del neon alla luce abbacinante di un posto, probabilmente del sud. Perché questo contrasto?
Il passaggio tra ombra e luce va di pari passo con un cambio anche a livello uditivo, olfattivo e tattile. La trasformazione del protagonista come individuo passa anche attraverso un radicale mutamento nella percezione del mondo che lo circonda, un po’ come se cambiando prospettiva si avesse il potere di cambiare il mondo stesso.
La scelta di non dare dei nomi ai personaggi ha una sua ragione? È per sottolineare il processo di atomizzazione e di spersonalizzazione?
Senza dubbio. La scelta è venuta spontanea nel momento stesso in cui ho iniziato a scrivere il romanzo. Dopotutto l’anonimato lo sperimentiamo quotidianamente. Incredibilmente, proprio in un momento storico in cui c’è una necessità incontrollabile di nominare e identificare (lo vediamo nella pubblicità, in internet…), il singolo viene considerato solo un numero.
A un certo punto il protagonista vuole riappropriarsi della propria vita, si ribella alle convenzioni, butta sveglia e cellulare, si rifiuta di essere un atomo, vuole ridiventare persona, cerca il manoscritto che aveva nascosto nel cassetto delle mutande, intraprende un viaggio, anela a un abbraccio con il cosmo. Quanto c’è di autobiografico in questo? E, visto che hai dedicato un libro a questo tema, che cos’è per Domenico Vetrisano la felicità?
Non posso negare che nelle vicende narrate nel libro c’è una base autobiografica. Io, come il protagonista, ad un certo punto della mia vita mi sono domandato cosa fosse per me la Felicità. Mi sono dato una risposta complessa ma che ha un fondamento semplice: non si può donare agli altri ciò che non si possiede. Assunto questo, mi sono reso conto di non poter donare la Felicità senza prima possederla. La Felicità veniva, così, ad assumere un connotato piacevolmente egoistico ma con risvolti sorprendentemente altruistici. La Felicità, per me, è essere liberi, ma in modo assoluto, liberi di pensare, riflettere, sognare e rincorrere i propri sogni, liberi di sorridere senza motivo e vedere il bello in tutto ciò che ci circonda.
Qual è il suggerimento che ti senti di dare ai giovani e ai diversamente giovani? Vale la pena inseguire i propri sogni e, soprattutto, c’è un’età in cui è più opportuno farlo o siamo tutti titolari del diritto alla felicità?
La Felicità è un diritto a cui tutti dobbiamo aspirare. Si è sempre in tempo per raggiungerla, ed è questo il messaggio del libro. Il mio suggerimento è di non aspettare il momento giusto per essere felici, come se fosse qualcosa di inconciliabile con ciò che ci richiede la vita, ma di rincorrere sempre i propri sogni, per quanto possano essere impossibili. L’esperienza insegna che tentando il più delle volte si scopre che nulla è impossibile.
Per concludere, io consiglio la lettura e anche la rilettura di questo libro, da cui si ricevono numerosi spunti di riflessione. Si resta legati alle vicende di questo personaggio che forse non si fa amare fino in fondo perché egli stesso pone dei paletti all’affettività. Tuttavia, il romanzo é un affresco dei nostri giorni e della scommessa del futuro che dobbiamo giocare, e vincere se non vogliamo soccombere al tedio e alla morte dell’anima.
A cura di Annalisa Martino