Abbiamo consumato troppo territorio. Semplice ma drammatica realtà.
Quando alziamo gli occhi preoccupati per le nuvole basse, bluastre e minacciose, e imprechiamo contro i “mutamenti climatici” dovremmo prendercela con noi stessi. Per generazioni abbiamo deviato e modificato fiumi, asfaltato e trasformato in autostrade semplici viottoli di campagna, abbattuto intere foreste, costruito ovunque case, laboratori, capannoni, già i mitici capannoni del NordEst!, alzato tralicci e posato chilometri di cavi e tubazioni. Senza preoccuparci dell’idraulica, delle falde, di dove poi finissero scarichi e rifiuti.
Infine ci siamo moltiplicati senza controllo. Perché mai nella Storia il Veneto è stato così intensamente popolato come oggi. Questo fatto da solo crea pressione sul territorio, senza aggiungere che ogni abitante di oggi “consuma” infinitamente di più di qualunque suo altro predecessore.
Tale contesto geografico riguarda anche Venezia nella misura in cui non è più solo insulare, ma si allarga a ventaglio con dimensione metropolitana verso la terraferma regionale.
L’esaurimento di risorse e territorio non è certo un problema locale. Di fatto il Pianeta ha superato il punto di non ritorno, nel senso che Gaia non è più in grado di sostituire quanto noi umani preleviamo ogni anno. Forse sarebbe il caso di fermarsi e riflettere.
Io non sono contrario in via di principio a “mettere le mani” sul territorio. Qualcuno ricorderà qualche mio articolo precedente in materia. Viviamo in un ambiente artificiale forgiato nei secoli da generazioni di interventi invasivi, pertanto abbiamo tutto il diritto di farlo pure noi: evitando l’autolesionismo, magari.
Insistere a distruggere terra per coprirla con colate di cemento, infatti, non è interventismo moderno bensì ormai semplice masochismo. A Venezia, utopia realizzata di un centro urbano piantato con la violenza nel bel mezzo di una laguna, insistere oggi per far entrare i nuovi colossi da crociera o le portacontainer di ultima generazione è autodistruzione.
Bisogna saper scegliere il meglio e non soggiacere alle follie del cosiddetto mercato. Questo, infatti, a dispetto delle anime belle non è affatto il luogo idilliaco dove bisogni e disponibilità s’incontrano per risolvere nel modo più efficiente i problemi generali. Nossignore. È un campo di battaglia, invece, una vasca di squali astuti e potenti dove trionfa il soggetto con meno scrupoli e valori. Esemplare la faccenda dei capannoni.
La pianura è punteggiata da migliaia e più di questi scheletri abbandonati, simulacri un tempo di un futuro migliore tramutatosi all’improvviso in presente da incubo. Se ne costruivano di continuo, senza soste, in una sorta di bulimia edilizia che ha coinvolto anche i Centri Commerciali. Nessuna razionalità in questo, solo smodata sete di guadagno immediato, facile e a qualsiasi costo. Ne stiamo ora pagando le conseguenze.
Capannoni e Grandi Navi sembrerebbero appartenere a mondi distanti, invece qui a NordEst, parola dimenticata e quasi maledetta quanto fino a poco fa idolatrata, siamo riusciti anche in questo miracolo: li abbiamo fatti “navigare” insieme, mano nella mano. E insieme ci stanno portando a fondo.

Federico Moro vive e lavora a Venezia. Di formazione classica e storica, intervalla ricerca e scrittura letteraria, saggistica, teatrale. È membro dell’Associazione Italiana Cultura Classica e della Società Italiana di Storia Militare.
Ha pubblicato saggi, romanzi, racconti, poesie e testi teatrali.