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Ciò che sta accadendo al Senato della Repubblica può servire a chiarire quale tipo di scontro politico sta andando in scena in Italia in questi mesi, con i nodi che stanno venendo al pettine in queste ore.

Da una parte c’è un governo, sorretto da una maggioranza parlamentare che vuole accelerare su un pacchetto di riforme, e non solo quella del Senato, con la convinzione, e noi con loro, che semplificazione di organismi, tempi, passaggi, letture e contro letture sia la chiave per la modernizzazione democratica dell’Italia e non solo sul piano istituzionale. Ma a cascata su tutti gli altri della vita sociale ed economica.

Dall’altra c’è un variegato fronte politico che si oppone a tutto ciò, mettendosi di traverso e incrociando veti, ben nascosto dietro a una volontà di dialogo di facciata e che dice: che no, che anzi, si vuole migliorare, condividere, perfezionare. In realtà come ben si è visto per il momento si vuole solo ostruire. Il numero di emendamenti, a migliaia, tutti scopertamente pretestuosi presentati per il dibattimento in aula sulla riforma del Senato, stanno a dirlo; e anzi c’è da meravigliarsi che i provvedimenti di riforma non riguardino anche questa piuttosto folle possibilità data alle opposizioni di fare le barricate con gli emendamenti. Con questi si può bloccare in qualsiasi momento un normale funzionamento democratico  e chi lo fa accusa il governo di golpe e di autoritarismo, cioè di quelle azioni che semmai il governo sta subendo; tuttavia le subisce senza la rassegnazione di mostrare l’altra guancia; e perciò, se la guerra è guerra, la maggioranza usa tutte gli strumenti tecnici che il regolamento parlamentare offre per  accelerare ciò che si vuole artatamente ritardare a bella posta, in realtà per far fallire e far ritirare le proposte riformatrici.

Questo variegato fronte di opposizione  ha marciato ‘compatto’ ( così dicono i giornali e possiamo credere loro), e io direi minacciosamente e pericolosamente compatto, verso il Colle del Quirinale. Con sit in finale in stile sessantottesco. Obiettivo: denunciare il golpe al Presidente della Repubblica, ma con la neppur troppo nascosta intenzione di denunciare proprio il Presidente come un capo o tra  i capi di quella che loro ormai considerano una cricca golpista.

Il variegato fronte lo si conosce bene e mette insieme destra post fascista, i conservatori della vetero sinistra, il leghismo xenofobo, il demgogismo populista, segmenti politici che sarebbe riduttivo assegnare strettamente solo alle quattro sigle partitiche ben note che li rappresentano e che sono ufficialmente gli oppositori che stanno bloccando il processo riformista. Infatti piccole legioni di quinte colonne dell’ostruzionismo stanno anche dentro ai partiti e agli schieramenti che ufficialmente appoggiano le riforme. Sono naturalmente i frondisti di Forza Italia uno schieramento che di pancia, tutto intero però, si sarebbe da un pezzo unito agli oppositori e alla marcia sul Colle, una sceneggiata populista che loro hanno molte altre volte messo in scena contro i ‘palazzi istituzionali’. Più insidiosa perché ammanta il suo sostanziale ostruzionismo con ragionamenti complessi e si fa paladina della Costituzione è la piccola ma agguerrita componente che nel PD sta frenando per mandare tutto a rotoli, sempre in nome della ‘loro’ interpretazione della Democrazia. A tenere bordone c’è poi una compagine extra parlamentare di intellettuali dai nomi prestigiosi, Zagrebelsky, Spinelli, Flores d’Arcais, Rodotà e infine Scalfari con le sue lenzuolate di sermoni settimanali. La loro posizione sottilmente garantista mette in luce una caratteristica che non si conosceva e che dava di loro un’ immagine diversa e più apprezzabile: fini argomentatori di diritto e di istituzioni democratiche essi si sono rivelati alla prova dei fatti semplicemente dei grandi teorici disinteressati all’applicazione pratica di tutto il loro castello argomentativo, una noiosità che non compete loro. Quando il funzionamento concreto della Democrazia viene al pettine la rigidità delle loro argomentazioni si dimostra inadeguata e spuntata. E non può che opporsi che con dei ‘no’ a prescindere e pregiudiziali  alla sfida di una proposta reale di democrazia efficiente; o che prova ad essere efficiente.

Ultimi ma non gli ultimi ci sono i ‘benaltristi’, più credibili perché portano argomenti più veri e che però finiscono per portare acqua alle barricate del ‘no’ alle riforme in corso. Sono quelli che dicono che c’è ‘ben altro’ che la riforma del Senato e che con la crisi economica in atto il governo se vuole essere riformista deve cominciare dalle riforme sul lavoro ed economiche. Come se lo snellimento delle Istituzioni in Italia fosse pura accdemia e non fosse invece una possibile chiave di quella semplificazione che per prima cosa si avverte nella società e quindi di conseguenza sull’economia e sul lavoro.

Ora noi sappiamo che l’impalcatura della Repubblica Italiana uscita dal fascismo e dalla guerra è stata costituita su un’architettura complicata di pesi, contrappesi, garanzie, forme e istituzioni che dovevano, secondo le intenzioni, proteggere da nuove derive autoritarie. Comprensibile allora, anche se non sono più neppure certo che già allora non si poteva creare subito un’architettura istituzionale che alla prova dei fatti si rivelasse subito nel concreto efficiente. In realtà le due stagioni, la prima e la seconda, del settantennio repubblicano hanno vissuto entrambe in una democrazia bloccata e quindi molto astratta e formale o teorica e mai in grado di fare il salto della modernizzazione a dimensione europea. A parer mio neppure negli anni del boom economico e neppure nella stagione dei diritti. C’è chi sostiene che l’architettura di pesi e contrappesi, di garanzie e di corpi separati e di isole istituzionali franche ci ha salvato in fondo bene o male dal ‘ berlusconismo’ riuscendo a liquidarlo (e non lo sappiamo ancora se poi ci ha salvato definitivamente). Si potrebbe però rispondere che in uno stato democratico efficiente e moderno il ‘berlusconismo’ non sarebbe neppure esistito.

Ci sono alcune conclusioni da poter trarre e su cui riflettere di fronte a questo quantomeno utile radicalizzarsi del scontro per l’evidenza dello spartiacque che sta tracciando. Una dice che la richiesta di un eccesso parossistico di democrazia ( elettività del Senato, preferenze, mantenimento dell’organismo tale e quale) è l’avversario più temibile di una democrazia efficiente, quella che alla fine è in grado di produrre leggi e decisioni con un sistema semplificato ma reale della rappresentanza dei cittadini. I diritti di veto ( ONU insegna) sono la caricatura della Democrazia. Un’altra conclusione parte dalla considerazione del già citato variegato fronte trasversale ostruzionistico e dice, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno, che lo scontro politico del presente e del futuro non andrà più in scena come scontro tra sinistra e destra, categorie obsolete dell’otto-novecento, ma tra una Democrazia Costituzionale reale da una parte e dall’altra una astratta che finisce per sovvertirla nei fatti o comunque per bloccarla.

Oggi finalmente alla luce del sole si vede che lo scontro in atto trova un’opposizione in realtà timorosa che la vittoria delle riforme rafforzi definitivamente non tanto il governo quanto piuttosto la forza politica che ne è alla guida. Avviandola ad essere una forza politica egemone, con un consenso ampio potenzialmente vicino al 50%, un ampio e plurale Partito laico della Nazione e della Costituzione che in Italia non è mai esistito; dal momento che nella prima Repubblica ne sono esistiti due di egemoni, ma tutt’altro che laici e solo parzialmente nazionali, nella seconda, quella che forse sta finendo neppure quelli.

Che questa temuta forza politica possa essere, a otto anni dalla sua fondazione, il Partito Democratico guidato da Matteo Renzi lo sapremo in un futuro non troppo lontano. Perché non c’è ancora certezza che lo possa essere e i dubbi sono ancora molti e dovuti in buona parte alla palude del composito corpo sociale italiano con le sue ancora forti rappresentanze capaci di bloccare qualsiasi processo innovativo.