Qualche giorno fa ho pubblicato sulla bacheca del mio profilo Face Book questo post che ripubblico su questo editoriale così come l’ho scritto:
“esattamente mezzo secolo fa nella prima settimana di ottobre del 1964 a Berkeley, California nasce il Free Speech Movement (FSM), il primo vero movimento studentesco degli anni ’60. Una generazione intera, senza saperlo, culturalmente, emotivamente, antropologicamente, politicamente è nata tutta lì. Poi la protesta giovanile un pò alla volta arriverà in Europa in un escalation che arriverà al ’68, ma con caratteri già molto diversi e già corrotti dall’ideologia di derivazione marxista. Ma allora, lì in quel lontano ottobre californiano ci sarebbe stata solo una grande e inedita protesta libertaria che semplicemente contestava il vecchio mondo. Senza saperlo reclamava modernità, e metteva al centro la soggettività. Fu soprattutto l’inizio di una grandiosa rivoluzione culturale che lasciò una traccia indelebile nei costumi del pianeta intero e di cui beneficiamo ancor oggi. All’inizio dello stesso anno, nel gennaio precedente Robert Allen Zimmerman, universalmente noto come Bob Dylan aveva scritto e cantato un brano immortale “the times they are a changing”, vale a dire “i tempi stanno cambiando”. Vorrei che fossero parole sempre verdi in omaggio al movimento che segnò un’epoca”
Questo il post. Ho ricevuto consensi, ma, inaspettatamente ho ricevuto anche molte risposte stizzite da parte di persone appartenenti alla generazione successiva, diciamo a occhio e croce, alla generazione di quelli nati nei ’60 e cresciuti negli anni ’80. Ne presento una perché sintetizza bene l’umore di chi mi ha scritto di getto, quasi per riflesso povloviano.
“La mia generazione ha sempre dovuto fare i conti con questi ingombranti “fratelli maggiori”. Non credo siamo in molti ad avere nostalgie o rimpianti di quel periodo o dei suoi prodotti”.
Come spesso accade un’affermazione a sostegno e a favore di qualcosa viene interpretata contro qualcuno, mentre io contro la generazione successiva non voleva affatto andare. D’altra parte, e lo dico senza alcuna supponenza o ironia, non è certo colpa di chi aveva 20 anni negli anni ’80 se è cresciuto solo con “drive in” e la spazzatura delle TV commerciali; anche la precedente generazione aveva “Canzonissima”, “Sanremo” e “Carosello”, ma a differenza della successiva aveva molto d’altro fuori nella società e nel pianeta e, questo si, anche per merito non tanto suo, ma dei pochi pionieri capaci di interpretare il nuovo e mostrare la faccia. Il riflusso degli anni ’80 fu inevitabile e la fine ingloriosa dei movimenti del “decennio lungo” ( ‘64-‘80) è stata causata dall’avvitarsi su se stessi dei movimenti medesimi. Per l’incapacità di tradurre in una politica laica, realistica e realmente riformatrice le spinte utopiche e globalmente rivoluzionarie, soprattutto sul piano culturale.
Come ho scritto nel post, nel 1968 il “sessantotto” era già geneticamente cambiato, per certi aspetti finito, e cominciava ad essere imbevuto di ideologia marxista leninista ( effettivamente molto più leninista che marxista) e del gioco alla ‘guerra’. Pier Paolo Pasolini ( anche lui di un’altra generazione, quella precedente) se ne accorse subito dopo i fatti violenti contro la polizia a Valle Giulia, che non a caso avvenne nella primavera dell’annus mirabilis che ha dato il nome al periodo. Pasolini in versi mise ferocemente a nudo la contraddizione di studenti figli di papà, rivoluzionari con la pancia piena, che tiravano sampietrini contro i proletari in divisa della Polizia. E fu così. Diversamente dall’esito che si stava prefigurando a Valle Giulia, la spinta, se si vuole più ingenua, che preparò e anzi ‘fece’ il sessantotto, paradossalmente non in quella data ma negli anni che l’hanno preceduta, contestava la società che si stava modernizzando perché in realtà chiedeva anche altrettanta modernizzazione culturale e dei costumi; mentre le società di allora su questo piano si mantenevano rigide e bigotte di fatto illiberali. E non è certo un caso se la contestazione sociale metteva al centro anche la rivoluzione sessuale e anzi, la praticava perché era l’unica che si poteva praticare nel presente. La stagione dei diritti degli anni ’70 ha poi ereditato questa parte migliore della spinta precedente, ma si è sentita continuamente contraddetta e giustamente screditata dalla deriva violenta e nichilista di chi interpretò alla lettera certi sogni egualitari.
Sul piano politico economico e di giustizia sociale gli anni ’60 hanno perso, su quello culturale hanno vinto per sempre, se è vero che oggi viviamo ancora, in un mondo completamente cambiato, con uno stile ‘libero’ che ha potuto accogliere facilmente la rivoluzione tecnologica/informatica degli anni ‘90. Anzi: quello stile ha prodotto quella rivoluzione. Non è certo un caso ma l’Università di Berkeley in California dista solo venti chilometri dalla Silicon Valley, il fuoco da cui si è propagato l’incendio della rivoluzione informatica. Non ho controprove ma la rigidità borghese della prima metà del ‘900 avrebbe faticato a partorire e ad accogliere il sistema volatile e universale nel quale stiamo vivendo. Certo l’accentuazione della soggettività ha anche esasperato l’individualismo è ha creato la società liquida in cui viviamo. Con i suoi guasti, dati dal vuoto di riferimenti , ma anche con quelle sue formidabili opportunità che Federico Moro mette bene in luce nel suo ultimo intervento su questa testata. A conforto di tale considerazione sugli anni ’60, e forse molto meglio di me, si è espresso di recente su Repubblica Federico Rampini (video.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/all-you-need-is-love-rampini-e-l-economia-spiegata-con-i-beatles/167443/165930) che ha parlato di quel periodo come l’ultima vera ‘età dell’oro’ che ci ha preceduto; e citava i Fab Four di Liverpool, i Beatles, come esempio di creatività fortunata e di squadra ottimista e vincente, capace di mettere in musica, oltre a versi onestamente più semplici, anche sogni e critiche sociali, tutte volte in positivo.
In definitiva la mia non è nostalgia acritica per quegli anni, è un richiamo forte per l’oggi e per questa stanchezza dell’occidente e italiana in particolare. Ogni grande rivolgimento affermativo e positivo di valori nuovi della storia è irripetibile, ma dimostra che si può invertire il corso e la deriva di annullamento delle speranze che periodicamente la storia presenta. Il Rinascimento, l’Illuminismo, la Resistenza al nazifascismo, gli anni ’60, solo per citarne alcune, sono state tante diversissime età dell’oro. E hanno tutte vinto soprattutto, ma non è poco, sul piano culturale, mettendo al centro l’uomo, i suoi bisogni, la sua soggettività. Ci si risollevasse almeno su questo piano sarebbe un buon viatico all’uscita anche politica ed economica da un tunnel in cui si potrebbe cominciare a rivedere la luce. Le citazioni in calce con cui chiudo mi pare possano simboleggiare bene questa possibilità. La seconda ha molto a che fare con il nome che ci siamo dati come “luogo di pensiero”.
“…There’s nothing you can do that can’t be done” ( ” Non c’è nulla di quello che tu puoi fare che non possa essere fatto”)
da “All you need is love”, album “Magical Mystery Tour” Lennon/McCartney 1967
” …ma prima che sia tardi vorrei cantare ai sordi la lunga ballata dei Luminosi Giorni”
da ” la lunga ballata dei Luminosi Giorni”, album ” Diavoli e farfalle”, Massimo Bubola 1999

Carlo Rubini (Venezia 1952) è stato docente di geografia a Venezia presso l’istituto superiore Algarotti fino al congedo nel 2016. Giornalista Pubblicista, iscritto all’albo regionale del Veneto e scrittore di saggi geografici, ambientali e di cultura del territorio, è Direttore Responsabile anche della rivista Trimestrale Esodo.