“Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni”.
Arthur James Balfour, lettera a Lord Rothschild, 2 novembre 1917
“Io intendevo creare una Nazione nuova, ristabilire un’influenza decaduta, dare a venti milioni di Semiti la base sulla quale costruire un ispirato palazzo di sogni per il loro pensiero nazionale.”
Thomas Edward Lawrence, “I sette pilastri della saggezza”, 1922.
Gli Stati Uniti sono passati all’azione: aerei da combattimento, bombardieri e missili Tomahawk lanciati dalle navi che incrociano nella regione hanno colpito nel corso della notte obiettivi nel nord della Siria.
Ansa notizie, 23 settembre 2014.
Gli Usa hanno deciso di attaccare il cosiddetto “califfato” islamico, spuntato dalle sabbie del deserto a cavallo tra Siria e Iraq. A Washington non si esita mai quando si sentano minacciati sicurezza e interesse nazionali. Imperialismo? Può darsi, ma agli amanti della Storia ricordo che Roma ha costruito così la sua “pax”. Quanto ai metodi, perfino Tacito finirà per criticare, nella Germania, l’attitudine delle legioni quando chiamate a ristabilire la situazione.
Due indizi non fanno ancora una prova, il terzo comunque sarebbe abbastanza semplice da trovare. Dobbiamo arrenderci alla necessità, intermittente, dell’uso della forza militare, allora? Nel Vicino Oriente parrebbe di sì. O, almeno, finora è andata così. La rassegnazione di fronte al ripetersi della Storia non appartiene al mio modo di pensare, però. Per questo, propongo intanto un piccolo passo indietro.
È indiscutibile che tutti i problemi dell’area abbiano un’origine cronologica e un movente strategico. La prima risale agli inizi del Novecento, il secondo porta il nome di petrolio. Certo, il prezioso combustibile non è l’unico elemento in gioco. La posizione geografica di crocevia di antiche vie commerciali, e quindi militari e politiche, rappresenterebbe di per sé ragione sufficiente ad attirare molteplici appetiti. È stato così in passato e le guerre tra persiani, arabi, ottomani e portoghesi, forniscono esempi a sufficienza. Tuttavia, da decenni il petrolio risulta centrale sotto ogni punto di vista.
Le due citazioni, all’inizio, riportano al cerino che fu buttato là dove spunteranno i campi di estrazione. Entrambe sono di inglesi. La Gran Bretagna ha poi trasmesso agli Usa il bastone di potenza dominante nell’area. Per qualche decennio, nella seconda metà del Novecento, vi è stata una notevole interferenza dell’allora Urss, ma si tratta di un ricordo interessante più che altro per gli storici. Quando gli Usa subentrarono, però, i nodi fondamentali della questione erano già stati posti. Da un lato, non si è dato risposta al nazionalismo arabo, destinato a declinarsi dopo la ventata baathista, quindi laico-socialista, degli anni 60/70, secondo gli antichi canoni del fondamentalismo islamico, in particolare sunnita; dall’altro si è introdotto nel corpo della Palestina un’entità estranea ormai dal 70 d.C.: uno stato ebraico, cancellato allora dalle legioni degli imperatori Vespasiano e Tito.
Di passaggio, ricordo che le guerre giudaiche combattute dai Romani furono in realtà tre: la prima, nonché la più famosa, tra il 66 e il 70 d.C., portò alla distruzione di Gerusalemme; la seconda fu combattuta tra il 115 e il 117 d.C. sotto l’Imperatore Traiano e la terza, tra il 132 e il 135 sempre d.C., sotto il governo di Adriano. La Diaspora, quindi, non è tanto un singolo evento quanto piuttosto una serie spalmata su almeno sette decenni.
La rinascita del “focolare ebraico” e la sua forte connotazione iniziale in senso democratico/occidentale, ha finito per diventare il pretesto di guerra e instabilità più forte nell’intero Vicino Oriente. Non solo a livello di propaganda. Il pretesto della “riconquista” della Palestina e della Santa Gerusalemme, infatti, è servito a lungo per nascondere la natura multietnica e multireligiosa di questa parte del mondo.
Nel Vicino Oriente, infatti, non vivono “solo” arabi ed ebrei, neppure “soltanto” mussulmani, cristiani e, di nuovo, ebrei: la realtà dell’area è molto più complessa. Ciascuna delle tre “religioni del libro”, tanto per cominciare è fortemente frammentata al proprio interno. Si tratta di grandi divisioni, come quella tra sunniti e sciti in campo mussulmano per esempio, e infinite altre che danno origine a una miriade di sette. Gli arabi etnici, poi, a loro volta non sono affatto un gruppo compatto e, comunque, devono fare i conti con una quantità di minoranze, parlanti altre lingue e di tradizione differente.
Perché questa lunga premessa? La ragione è semplice. Se vogliamo uscire dalla spirale della guerra “senza fine”, bisogna partire da qui: il Vicino Oriente è un mosaico di popoli e civiltà, di identità e culture. La risposta al conflitto è una soluzione federale: l’Iraq non è una “nazione”, così come siamo abituati a definirla in Europa, dove comunque le tensioni “nazionaliste” non mancano davvero, non lo è la Siria e nemmeno la Giordania, meno che mai la Palestina. Non hanno nemmeno omogeneità religiosa al loro interno, la fedeltà tribale è prevalente su qualunque altro tipo di appartenenza. Costruire un tessuto di relazioni stabili è quanto mai difficile, dunque, specie quando il concetto di “stato” si abbini, nell’immaginario collettivo delle popolazioni, a corruzione, dispotismo, soprusi di ogni genere.
Arrivati in Iraq, gli Usa e i loro alleati avrebbero dovuto far crescere la pianticella della federazione, non abbandonare il paese all’incertezza di una “democrazia totale” che, inevitabilmente, avrebbe portato alla vendetta delle vittime di ieri. E così è stato. Scatenando contro gli sciti la reazione dei sunniti. Degli arabi contro curdi, yazidi, cristiani di ogni tipo, avvertiti come corpi estranei. Federazione significa “cantoni” omogenei, con un’autorità centrale capace di distribuire il dividendo petrolifero in maniera equa. Se possibile.
In fondo è il problema di sempre e di ogni luogo: le diversità diventano irriducibili quando la povertà avanza. Allora ci si comincia a scannare nella convinzione non ci sia altra via per sopravvivere. Così, invece, si finisce in un baratro di altra miseria condita da violenze incontrollate. Il petrolio, però, solleva appetititi mondiali. Non è semplicemente nella disponibilità di un qualunque governo locale. A maggior ragione, allora, i cantoni federati rappresentano una possibile risposta.
Quanto al grande cerino della Palestina, una soluzione di questo tipo potrebbe rappresentare un possibile percorso per far convivere ebrei, mussulmani, drusi, cristiani e via dicendo. Ognuno vedrebbe tutelata la propria specificità, ciascuno troverebbe in una federazione l’appoggio di cui avrebbe bisogno per risolvere i problemi di maggiore entità. E la necessaria sicurezza.
Utopia? Può darsi, ma se qualcuno ha un’idea migliore la tiri fuori. Altrimenti, forse vale la pena provare. In fondo, non corriamo grandi rischi, in guerra ci siamo già.

Federico Moro vive e lavora a Venezia. Di formazione classica e storica, intervalla ricerca e scrittura letteraria, saggistica, teatrale. È membro dell’Associazione Italiana Cultura Classica e della Società Italiana di Storia Militare.
Ha pubblicato saggi, romanzi, racconti, poesie e testi teatrali.