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Lavoro ed equità nella nostra carta Costituzionale appaiono in sedi ed articoli distinti, ma sono valori fondanti che si incrociano spesso.  Provo allora a fare un ragionamento sul lavoro basato su elementari principi di fondo, non tecnico quindi, anche perché non mi compete e non avrei minimamente l’esperienza per farlo.

La linea governativa sul lavoro che si è concretizzata con una legge in materia da poco varata e con i relativi recenti decreti attuativi può legittimamente essere attaccata da chi non è d’accordo sul suo impianto e sul suo metodo e naturalmente c’è chi lo sta facendo e non da oggi. Essendo indebolita  la rappresentanza politica che è contraria alla riforma per la contraddizione di stare, tale rappresentanza, in buona parte dentro al partito che più fortemente l’ha voluta, l’opposizione diciamo di massa se la è assunta il sindacato e principalmente la CGL; secondo uno schema che non è nuovo nella nostra storia repubblicana che più di una volta ha visto questa organizzazione caricarsi di obiettivi politici che non sarebbero proprio nella natura di un sindacato. Ma siccome la storia e il costume fanno testo e non si possono ignorare questo ruolo del sindacato va accettato, bisogna farci i conti e questo il governo lo deve capire senza il tono di supponenza che pure il sindacato assume spesso a sua volta. Non si capisce perché a supponenza, verità in tasca e atteggiamento muscolare si debba sempre replicare con la stessa stupida arma. Quindi dico subito che ci sta che in una materia così controversa la riforma venga attaccata con forza: su questa scelta governativa si può o non si può essere d’accordo, ma va subito rimarcato comunque che non si può nemmeno dire che non sia chiara e trasparente.

Mi par di capire che muova da un ragionamento di questo tipo: in una situazione di crisi economica planetaria dove la creazione di posti di lavoro, già minata dall’introduzione ormai almeno ventennale di nuove tecnologie, diminuisce proprio per l’incertezza  sul risultato di ogni euro d’investimento, la rigidità che da più decenni vige nel lavoro in Italia, determinata dalle norme che tutelano i diritti dei lavoratori, diventa un’ aggravante decisiva, dà il colpo di grazia ad ogni prospettiva d’investimento per nuove assunzioni; proviamo, si ragiona, a rimuovere almeno in parte queste rigidità per vedere se la rimozione produce un sistema più fluido e si rimette in moto il mercato del lavoro in forme più snelle. Il licenziamento e per di più collettivo nella riforma mi pare essere il nervo scoperto che suscita maggiori opposizioni con una battaglia a favore o contro che si configura come battaglia di principio. Anche questo ci sta e va accettato, evitando ironie e sarcasmi sulle battaglie di principio e invocando pragmatismo di maniera, perché i principi contano. A maggior ragione qui dove appunto cerco senz’altre ambizioni di fare un ragionamento sui valori e sui principi.

Andando avanti con il ragionamento da profano leggo sui giornali che non sono consentiti licenziamenti discriminatori e che qualora avvenissero vi è l’obbligo del reintegro. Cioè non è possibile, deduco, che si venga licenziati per ragioni diverse dalla scarsa produttività del lavoratore o dalle difficoltà di mercato dell’azienda che senza il licenziamento rischierebbe fallimento o chiusure. Sospendo il giudizio sul fatto che queste due casistiche nei licenziamenti, produttività e difficoltà dell’azienda, siano utili e come principio giusti ed equi: se ne conseguisse una ripresa dell’occupazione lo sarebbero, ma al momento un profano non è in grado di prefigurarlo se poi anche gli esperti non lo sono. Ribadisco solo che se ne capisce la ragione governativa. Ripeto: è una linea che può piacere o non piacere, ma la si capisce. E si capisce anche facilmente il metodo sotteso che, concedendo licenziamenti per questi due motivi, vorrebbe togliere quella rigidità che non consente investimenti, pur accompagnandola  – va riconosciuto al governo – con nuovi paletti ‘rigidi ma non troppo’ che aboliscono contratti di precarietà.

Tutto da dimostrare si dirà. C’è una certa dose di rischio nella scelta, certo, e trovo che sia comunque una novità di rilievo che forze politiche di sinistra abbiano avuto il coraggio di correre questo rischio, anche perché una pluridecennale linea opposta non ha certo prodotto in Italia maggiori equità, lavoro e allargamento del benessere. Anzi.

Personalmente penso anch’io che vada corso questo rischio, ma penso anche che immediatamente si debba procedere con una linea di compensazione senza la quale questa rivoluzione è incompleta. Ho provato a leggermi le nuove norme sugli ammortizzatori sociali compensativi. Si aggrovigliano, come forse è inevitabile, in casistiche e condizioni. Mi pare ‘a pelle’ che non bastino. Io credo che lo sblocco delle rigidità potrà assumere alla distanza un significato di rilievo solo se accompagnato dall’introduzione, senza troppi distinguo, di un salario sociale minimo garantito che tolga di mezzo la paura e l’angoscia per il futuro da una parte e dall’altra stimoli tutti i soggetti sociali a mettere in gioco i propri talenti o soprattutto, se non ci sono, ad acquisirli. L’immagine che mi viene in mente è quella dell’equilibrista sul filo che si esprime al meglio fino a strappare ripetuti applausi anche perché c’è sotto nel baratro una rete che psicologicamente lo mette nelle condizioni di concentrarsi bene in quel che sta facendo, liberato dal pensiero che la sua vita è in gioco. Mi sembra che questa rete non ci sia ancora o lo sia nella legge a maglie ancora troppo larghe e vada presto rafforzata. E che non riguarda solo la garanzia della sopravvivenza con il salario minimo che pure è necessario. Riguarda anche una serie di accorgimenti per cui lo stato sociale, noto come welfare, non venga smantellato e vada anzi rafforzato ovunque per ottenere una decisiva credibilità. L’affermazione, me ne rendo conto, si presta anche in questo caso a sorrisi ironici se si pensa ai contesti europei sul ‘rigore’ e sulle applicazioni agli enti locali con patti di stabilità e simili. Da non tecnico resto però convinto che mantenimento dell’ welfare non significhi sempre e comunque spesa pubblica in aumento o in non contenimento, quanto piuttosto attenta razionalizzazione e anche gestione partecipata con il privato sociale. La volontà politica in questo senso potrebbe molto.

Un’ultima notazione. Sono un dipendente pubblico a fine carriera assunto dallo Stato come insegnante all’età di ventisei ( 26 ) anni, a distanza di sedici mesi da una laurea già tardiva e fin dal primo momento assunto a tempo indeterminato, con tredici mensilità totalmente garantite da trentasei anni, dopo soltanto un anno di supplenze precarie che a me appariva già un periodo enorme. Qualcuno che conosce la mia ‘privilegiata’ condizione lavorativa rimarcherà subito che ciò che sto per dire è facile e addirittura ipocrita detto a fine carriera dopo decenni con il culo protetto dall’ala dello Stato e senza che mai nessuno abbia detto bah sulla mia produttività, affidata solo alla mia coscienza, che qualche volta è stata pure tentata, lo ammetto con franchezza, dal comodo della garanzia ‘ a prescindere’. Ma lo dico conscio delle bordate di fischi che mi posso prendere affidato solo, per non riceverli, alla credibilità personale, per quel che vale. E dico questo: se si accetta il rischio, con tutte le reti protettive possibili, di rimettere in libertà il lavoro anche con il giudizio sulla produttività e di affidarsi ai talenti di ciascuno per la crescita della qualità complessiva, questo deve valere anche per tutto il settore pubblico. Se sono l’equità e la lotta senza quartiere al privilegio i valori di fondo a cui ci ispiriamo, questa equiparazione è un obbligo direi morale, perché il contrario costituirebbe una discriminazione inaccettabile verso chi dipendente dl settore nel pubblico non è. Anche se l’applicazione sarebbe veramente minima, almeno nel campo dell’insegnamento pubblico. Perché la produttività e la professionalità nel mio settore è alta pur non essendo scandalosamente mai stata concretamente promossa dallo Stato; ottenuta comunque per le vie miracolose dell’ingegno personale di moltissimi insegnanti e per l’apprendistato forzato in frontiera dietro la cattedra. Dove la passione di istruire e di formare ha potuto più di tutto. La casistica per licenziamento da scarsa produttività degli insegnanti statali avrebbe perciò un numero molto prossimo allo zero, anche se eticamente e, certo, per principio, è una casistica che va a questo punto prevista.