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Da La Nuova Venezia di martedì 24 marzo 2015: “Dai musei al teatro, l’oro del Veneto si chiama cultura.”

Bastano le cifre dell’Atlante Veneto della Cultura, tre anni e chissà quale spesa per realizzarlo: 302 musei e le aree archeologiche con quasi 8 milioni di visitatori all’anno; 640 gli archivi e le biblioteche; 450 gli spazi teatrali; 6.368 i beni archeologici e architettonici vincolati.

La prima osservazione: i poco meno di 8 milioni di visitatori all’anno sono ben meno degli oltre 10 milioni totalizzati dai londinesi British Musem e National Gallery da soli. Qualcosa, è chiaro non funziona. Che cosa?

Sempre da La Nuova Venezia del 24 marzo… “Per 25 anni ci siamo totalmente dimenticati di questo settore”, parola di Marino Zorzato, assessore della Regione Veneto. Complimenti, mi viene da commentare e subito dopo aggiungo, grazie ma ce n’eravamo accorti. Meglio tardi che mai?

Ci si potrebbe accontentare. Il rischio reale è che, realizzato questo inutile Atlante, davvero ce n’era bisogno? Per sapere quanti musei ci sono in Regione e quanti pochi visitatori hanno? Sul serio?, comunque sia, terminata la “ricerca”, esaurite le presentazioni sono certo che si ricadrà nel noto tran-tran. Perché lo sentiamo ripetere di continuo: la cultura rappresenta la vera ricchezza del Bel Paese, del Veneto e di Venezia in particolare.

Qualcuno, in vena di audaci paragoni, si è spinto fino al punto di definirla il nostro petrolio, non solo oro dunque, altri hanno parlato di giacimenti culturali riferendosi a opere, aree storico-archeologiche e musei. Una materia prima, insomma, uguale a tante ma, a differenza della maggior parte, di sicuro ecologica, verde per così dire, e potenzialmente inesauribile. Questo perché in grado di mettere in moto l’intelligenza attraverso i processi della creatività. Campo nel quale ci riteniamo insuperabili.

Vera oppure solo presunta, tale caratteristica nazionale, in genere, è assunta a pietra angolare dell’edificio Italia Futura. In laguna, della Città Metropolitana in costruzione. Ne hanno parlato anche i candidati alle primarie del Pd, ne sono certo ne faranno un cavallo di battaglia il o i candidato/i del centro-destra. “Fa bello” inserire nel programma un passaggio sulla cultura e, in particolare, sulla “produzione culturale”. Il punto, infatti, sarebbe questo, infatti: la materia prima in questione dev’essere trasformata, al pari di qualunque altra, per generare non solo conoscenza ma anche, speranza condivisa da chiunque, ricchezza che permetta magari non solo di sopravvivere. Già, come muoversi, però?

Tra le caratteristiche del Bel Paese ce n’è una di inquietante: l’incredibile distanza tra il “dire” e il “fare”. Il caso della produzione culturale è da manuale. Oltre l’affermazione di principio e qualche vaga indicazione generica troviamo il vuoto. Nessuno si sbilancia a esporre almeno un progetto concreto, che mostri una via possibile per passare dalla teoria alla prassi. Del resto, se i musei e aree archeologiche del Veneto, 302 ricordo, hanno una media di 26.460 visitatori all’anno, cioè i 7.991.000 censiti dall’Atlante, e qualcuno non riflette su quanti pochi siano e non si pone delle domande non si concluderà mai niente.

Nota: naturalmente si tratta di una grezza media matematica, dentro c’è di tutto, a cominciare da Palazzo Ducale di Venezia, il Santo di Padova e l’Arena di Verona, tanto per dire, che fanno “corsa” a parte. L’apocalisse la si misura nel tessuto diffuso di tutti gli altri “giacimenti.”

Tanto per non cadere nella stessa trappola, provo qui a esporre un’idea, realizzabile subito a Venezia Città Metropolitana, e la offro alla riflessione dei lettori e, del tutto gratuitamente, a chiunque se ne voglia appropriare per utilizzarla.

Oggi la rivoluzione industriale digitale viaggia lungo il sistema nervoso dei FabLab*. Tanto importanti da rappresentare negli USA un primario programma federale che vede impegnato nella loro promozione, in prima persona, il Presidente. Ogni università americana ha un FabLab. Lo stesso sta accadendo nell’Europa che corre, in Asia, ovunque. Anche in Italia, qua e là, specie per iniziativa locale. A Venezia c’è n’è uno solo, privato e dalla fortuna incerta.

Se i FabLab, quelli della manifattura additiva tramite le stampanti 3D per intenderci, sono considerati vitali per il futuro industriale, se un FabLab altro non è che un “posto”, spesso di ridotte dimensioni e dall’impatto ambientale nullo, dove l’intelligenza trova l’infrastruttura necessaria a tradurre il progetto in oggetto… altrettanto deve accadere per il “prodotto” cultura. La materia prima, infatti, per essere “trasformata”, così come si diceva prima, ha bisogno di luoghi fisici dove la creatività sia messa in grado di passare dallo stadio di idea a quello di realizzazione. Farò violenza a me stesso e userò, una volta tanto, un acronimo anglosassone: occorrono i MindLab, cioè i Laboratori della Mente.

Cosa sono? Dove?

Un MindLab dev’essere un posto dove chi “fa” cultura, a qualunque livello e di qualsiasi tipo, abbia la possibilità, senza spese o con costi limitati, di elaborare e proporre al pubblico la propria idea. Prima di tutto di svilupparla in un ambiente che sia favorevole alla sua definizione, grazie al contatto con altri soggetti interagenti e all’immersione in un contesto stimolante. In secondo luogo di incontrare pubblico e operatori professionali di ogni settore, per verificarla sul campo e tentare di farla crescere sino al livello di “prodotto finito.”

Sulla falsariga dei FabLab, i MindLab non hanno bisogno di grandi spazi e/o infrastrutture, l’importante è che la loro collocazione permetta il processo creativo. In piena libertà. Ovviamente ne esisteranno di diverso tipo, perché non tutte le manifestazioni della creatività culturale hanno le stesse necessità. In ogni caso, l’investimento nel settore sarebbe assai modesto e di sicuro ripagato anche solo dal successo di poche di queste “produzioni”, secondo una formula che preveda di riversare, per un certo arco di tempo, parte dei guadagni realizzati alla struttura dei MindLab. Il modello è quello degli incubatori che generano start-up, scusate l’acronimo ma sono sicuro di essere meno frainteso così, solo applicato alla dimensione culturale. Dove?

L’Atlante ci soccorre: ognuno dei 281 musei, anche se io ci metterei dentro pure le 21 aree archeologiche; dei 640 archivi o biblioteche, dei 450 spazi teatrali può diventare un MindLab. In totale abbiamo già pronti 1.392 potenziali MindLab. Senza spesa.

Restando nella dimensione veneziana, vedo ogni singola biblioteca civica, oggi tranne la Vez di Mestre dalla vita stentata e assai precaria, come MindLab. Mettiamoci dentro un bel po’ di scuole. Insomma, davvero di luoghi ne abbiamo in quantità.

Follia?

Mica tanto. British e National citati prima non fanno pagare il biglietto d’ingresso eppure presentano bilanci in sostanziale pareggio. I nostri musei sono cari, spesso molto cari, non hanno visitatori e sono aperti solo grazie al fatto che l’ente pubblico interviene. Cioè, finiscono a carico della fiscalità, generale o locale. Forse potremmo imparare qualcosa. Il primo segno d’intelligenza creativa sarebbe proprio questo. Analizzare come fanno gli altri, provare banalmente a copiarli là dove hanno successo. Saranno mica più creativi di noi? Oppure il problema è nella desolante affermazione riportata all’inizio, “Per 25 anni ci siamo totalmente dimenticati di questo settore”?

Nel dubbio, mettiamoci al lavoro, è tempo di passare dal “dire” al “fare”. In fondo è solo questione di un pizzico di buona volontà. Tutto qua.

 

*da Wikipedia: “Un fab lab (dall’inglese fabrication laboratory) è una piccola officina che offre servizi personalizzati di fabbricazione digitale. Un fab lab è generalmente dotato di una serie di strumenti computerizzati in grado di realizzare, in maniera flessibile e semi-automatica, un’ampia gamma di oggetti. Tra questi vi sono prodotti tecnologici generalmente considerati di appannaggio esclusivo della produzione di massa. Mentre non possono competere con la produzione di massa, e le relative economie di scala, nella produzione di beni di consumo, i fab lab hanno dimostrato grandi potenzialità nel fornire ai loro utenti gli strumenti per realizzare in proprio dispositivi tecnologici. Tali dispositivi possono infatti essere adattati alle esigenze locali o personali in modi tuttora non accessibili alle produzioni su larga scala.”