E dunque alla fine è accaduto anche a casa nostra. In quella Mira che certo non è una metropoli (anche se, coi suoi quasi 42000 abitanti, è fra i comuni, non capoluogo, più popolosi della Regione Veneto) dove cose analoghe succedono spesso. È notizia di cui molto hanno parlato i quotidiani locali: un fetore insopportabile, una perdita idrica, la chiamata dei Vigili del Fuoco e l’orribile scoperta di due fratelli morti da tempo. A casa loro. In un anonimo appartamento popolare in mezzo e uguale a tanti altri. Morti nella più totale miseria ma soprattutto nella totale solitudine. Certo: gli anatomopatologi forensi chiariranno il quando e il come di questa duplice morte. Ma rimane l’amarezza e un senso di cogente impressione riassumibili entrambi in una domanda: possibile? Possibile che due persone, comunque conosciute, possano morire nelle loro camere da letto rimanendoci alcuni mesi (almeno 4 o 5) senza che nessuno se ne accorga? Senza che nessuno se ne pre-occupi? Come è potuto accadere? Come è possibile che in questo nostro oggi tutto proteso alla interconnessione, alla multicomunicazione, dove solo se hai un profilo Facebook ed usi regolarmente Twitter o Instagram sei davvero qualcuno; dove tantissimi ragazzini vivono quasi soltanto di amicizie virtuali trascorrendo il loro tempo su whatsapp e accontentandosi di un cuoricino fatto di pixel anziché scoprire la gioia di un sorriso e di un abbraccio veri ; dove non sei nemmeno libero di andartene via perché tempo un giorno ed entrano in funzione immediatamente le telecamere di Chi l’ha visto? a distruggere la tua voglia di solitudine o il tuo legittimo desiderio di cambiare vita; dove se un gatto – magari preda dei suoi stagionali ardori – decide di andarsene in giro per i fatti suoi compaiono immediatamente volantini e promesse di ricompense a chi ne dà notizia, possibile ci si chiede che due poveri cristi muoiano e occorra aspettare il tepore primaverile per accorgersene un po’ come accade in altissima montagna quando il disgelo a volte fa rinvenire i corpi di alpinisti scomparsi da decenni? Certo: a quanto accaduto hanno contribuito, e non poco, forme più o meno latenti di disagio sociale e psicologico ma non si può non essere colpiti dal fatto che sia sufficiente lasciarsi un poco andare perché poi non ci sia nessuno che ti aiuti a rialzarti. E non è (solo) questione di reti socioassistenziali oramai in crisi perenne per via dei continui tagli lineari cui sono sottoposti i loro bilanci. Ciò che colpisce soprattutto è che questo accade anche qui, anche da noi che fino ad uno scorcio di tempo fa avevamo mani e piedi ben saldati alla terra, eredi per parte di padre e di madre di quella magnifica tradizione di solidarietà e reciproca assistenza che da sempre ha caratterizzato la cultura contadina. È questo il prezzo da pagare al progresso? Meglio, l’ indebolimento dei rapporti umani, il menefreghismo, le solitudini esistenziali: sono anche questi una irrimediabile conseguenza del progresso? E come è possibile recuperare quel senso, genuino e dunque profondamente vero, di appartenenza ad una comunità dove ancora ci si saluta guardandosi negli occhi e di ciascuno e di ognuno sappiamo chi è e cosa fa? Perché questo senso comunitario è andato perduto? Accade poi che osservi il luogo dove è accaduta la tragedia. E di improvviso presti maggiore attenzione a quei palazzoni alti, anonimi, con (sempre che ci sia) uno spiazzo di verde condominiale dove non c’è magari nemmeno una panchina dove sedersi, qualche gioco da bambini. E ti chiedi se sono davvero diversi (microcriminalità a parte) dalle Vele di Scampia, dal rione Sanità di Napoli o dallo Zen di Palermo, insomma dai tanti quartieri periferici e degradati di cui una urbanistica distratta e senz’anima ha riempito questo nostro (bel) Paese. Perché vivere in case popolari significa mica per forza vivere in un formicaio di cemento come ben ha dimostrato il progetto di edilizia popolare (fine anni ’80) che Aldo Rossi (tra i più grandi architetti italiani al mondo) ha progettato a Marano, una manciata di chilometri da Mira. Ma forse manca anche quella solidarietà cristiana -anch’essa molto strutturata nella cultura contadina – che oggi rischia di diventare una sterile compassione dove è sufficiente (e per carità significa già molto) dare un pezzo di pane ed un vestito per sentirsi a posto con le nostre coscienze. Ma in fondo di cosa ci lamentiamo? Siamo gli stessi che perfino di fronte all’immane tragedia di centinaia di uomini, donne, bambini soffocati da quel mare che per loro era un ponte tra la miseria atavica della loro terra (miseria della quale è proprio l’Occidente ad esserne massimamente responsabile) e una seppure fragilissima promessa di benessere rimaniamo immuni (libera nos domine da quell’egoismo sdrucciolo che abbiamo tutti quanti canta Francesco Guccini) a qualunque forma di pietas , di commozione e compassione quando addirittura non siamo pronti a cliccare mi piace in uno dei tanti post di Facebook intrisi di scoperto razzismo (e magari subito dopo applaudiamo papa Francesco). Ma stavolta non è accaduto nella bellissima Lampedusa o nell’altrettanto splendida Pozzallo (e la gente del sud sta dando a noi nordici una grande lezione di umanità e di accoglienza ). No. È accaduto praticamente di fronte al pianerottolo di ciascuna delle nostre case. E questo non può lasciarci indifferenti. Tra parenti che non ci sono più, funzionari che suonano il campanello senza chiedersi perché nessuno apre, la burocrazia che si limita a chiudere i contatori per morosità e i volontari che non han tempo – sopraffatti come sono da continue e crescenti richieste di aiuto – di accorgersi di quei fratelli che non si fan più vedere, nessuno di noi (nessuno!) sa più pre-occuparsi dell’altro, dei suoi bisogni, dei suoi problemi, delle sue solitudini. Ne abbiamo già tanti noi figurarsi se c’è il tempo di preoccuparsi degli altri: lo abbiamo pensato tante volte, lo abbiamo detto in tanti. Eppure….proprio in questi giorni ricordiamo i 39 anni che ci separano dal terremoto in Friuli. E i friulani hanno visto le stesse scene che 10 anni prima di loro avevan già visto i fiorentini e 33 anni dopo avrebbero visto gli aquilani: un esercito di volontari, di qualunque età, pronti a correre per aiutare gli altri. Pronti a sgomberare strade dalle macerie, a scavare con le mani nude tra cocci e mattoni e a salvare dal fango preziosissimi manoscritti dalla biblioteca nazionale centrale (moltissimi i giovani che Bruno Migliorini – uno dei massimi linguisti italiani – così volle ricordare nella lapide posta all’ingresso: In questa biblioteca e altrove in Firenze dove l’alluvione del novembre 1966 più aveva imperversato numerosi giovani italiani e stranieri tra l’acqua e il fango con generosa abnegazione recarono aiuto e proprio le scene riguardanti l’alluvione di Firenze sono fra le più belle de La meglio gioventù , straordinario film di Marco Tullio Giordana). Ma quelle erano tragedie visibili e dunque immediatamente percepite come tali e subitaneamente suscitatrici di commozione (da con – movere “muovere con, muovere insieme”) e di afflato solidaristico. Ma le tragedie dei singoli, vissute magari in una solitudine dettata dall’indigenza o dalla vergogna quelle non le vede nessuno. Nemmeno noi le vediamo. Eppure Adele Zara, una tranquilla signora di Oriago, di famiglia semplice ma onesta, a settant’anni non ci ha pensato un solo istante -nel 1944 – ad aprire le porte di casa – anche a costo di rischiare la fucilazione non solo sua ma di tutti i suoi cari – a Carlo, Fulvia e Elisa Levi, una famiglia ebrea che stava scappando dalla guerra e dalle persecuzioni razziali. Ed è per questo che anche Adele ha il suo albero nel giardino dei giusti tra le nazioni dove a Gerusalemme si ricordano per l’appunto quanti, nel mondo, contribuirono a salvare fisicamente gli ebrei dal vigliacco odio razziale nazifascista. In quale terra contraddittoria viviamo noi che se guardiamo a levante siamo illuminati dalla figura di un eroe semplice come Adele Zara ma se guardiamo a ponente non possiamo non sentirci responsabili di quanto accaduto a questi due fratelli! Si chiamavano Emanuele e Mauro Gallina. Avevano 41 e 43 anni. Qualcuno ha scritto che ricordare un nome significa perpetuarne la memoria.

Vive da sempre nella terraferma veneziana. Per cinque anni è stato Vicesindaco (con delega alle politiche culturali e turistiche) del comune di Mira. Laureato (cum laude) in Lettere a Padova ha collaborato per oltre un decennio coi quotidiani del gruppo editoriale Finegil (La Nuova Venezia, Il Mattino di Padova, La Tribuna di Treviso), con La Repubblica e con Gente Veneta. Si occupa di gestione del personale e della sicurezza presso alcuni musei veneziani. Nel tempo libero ama la montagna e le immersioni subacquee.