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Da qualche tempo circola nel web una vignetta in cui vengono messe a confronto due situazioni scolastiche. La prima: anni Ottanta, una coppia di genitori riceve una nota disciplinare attribuita al proprio figlio, si reca dall’insegnante, autrice della nota, e concorda con quest’ultima ulteriori punizioni, certa dell’efficacia del provvedimento. La seconda: giorni nostri, una coppia di genitori  prende atto di una nota e, insieme al figlio, destinatario del provvedimento disciplinare, redarguisce, adirata, l’insegnante che, con la coda tra le gambe, si fa piccola piccola come se volesse scomparire. Le due scenette testimoniano un cambiamento della nostra società e pongono alcuni interrogativi. In quale considerazione sono tenuti, oggi, mediamente, gli insegnanti? Godono di sufficiente autorevolezza presso le famiglie? Godono del dovuto rispetto? Viene riconosciuta loro adeguata preparazione nei diversi campi del sapere nei quali operano? Si pensa che lavorino abbastanza? A parte la prima domanda (in quale considerazione sono tenuti oggi gli insegnanti) alla quale risponderei con la parola “pessima”, per tutte le altre pronuncerei un secco e lapidario “no”. Se in Giappone gli insegnanti sono le uniche persone di fronte alle quali l’imperatore si inchina, se in Finlandia, in Germania, ma anche nella vicina Francia si assegna il giusto riconoscimento economico e sociale a questa categoria di lavoratori, in Italia la figura del docente non gode – per usare una perifrasi indolore – di buona fama.

Ma, visto che non è stato sempre così, che cosa è cambiato? Che cosa ha determinato un calo così umiliante delle quotazioni di maestri e professori? Senza dubbio il peggioramento progressivo delle condizioni economiche. “Che nesso c’è tra le due cose?” Mi obietterà con candore il lettore che non giudica gli uomini e le donne sulla base del loro conto in banca, ma per il  loro intrinseco valore. Più che di candore parlerei di sprovveduta ingenuità. Il conto in banca è importante. Almeno per una certa mentalità, che è quella dominante. Il cosiddetto status economico conferisce valori, stabilisce gerarchie e decreta la maggiore o minore importanza delle persone, la loro maggiore o minore utilità. L’equazione “stipendiodafame-lavoratorediinfimacategoria” è sempre in agguato. Il guaio è che, nonostante i proclami volti a raccattare voti in fase elettorale, poco si fa, non dico per equiparare la condizione degli insegnanti  italiani a quella dei loro colleghi europei (che sarebbe un improvviso risvegliarsi dalle tenebre dell’indifferenza nei confronti di un lavoro prezioso e indispensabile), ma per restituire dignità alla funzione docente. C’è da dire, anzi, che sottovalutare il ruolo dei docenti, a colpi di tagli e sacrifici, non ha fatto altro che ratificare stereotipi e pregiudizi secondo i quali gli insegnanti lavorano poco e, dunque, meritano forti decurtazioni dello stipendio.

Ho sempre guardato con sospetto quanti si rifugiano nel motto “sono tutti uguali”. Ho sempre ascritto a becero qualunquismo tale proclama.  Mai come adesso, però, sono costretta a ricredermi: i governi cambiano, si succedono, si rimpastano ma  la scuola rimane sempre negli obiettivi da colpire. Analogamente, le osservazioni demagogiche sull’impegno degli insegnanti e le boutade sul loro tempo libero e sulle loro fantasmagoriche vacanze strappano consensi ed applausi. E hanno tutte (sia che provengano da destra o che siano espresse a sinistra) l’effetto di depauperare, deprimendone gli slanci, le condizioni di chi deve aprire e formare le menti dei futuri cittadini. Come si fa a conferire credibilità a delle figure rese opache da condizioni di vita difficili? Come si fa ad affidare loro la formazione dei nostri figli? E come si fa a credere nell’efficacia del loro insegnamento, se esiste anche una classe dirigente pronta a metterne in luce indolenza e inadeguatezza? Come si fa a capirne il valore se non si è disposti a riconoscerne l’impegno?

Non è facile avere la meglio su luoghi comuni così forti e radicati. Tanto più se si considera che sono venute meno quelle distanze necessarie a tenere nella giusta considerazione il ruolo dell’adulto. Figli eccessivamente protetti e poco allenati alla vita, preservati dalle frustrazioni e dalle difficoltà, non attrezzati ad affrontare i disagi e abituati a vedere negli adulti di riferimento dei meri strumenti di affermazione, spesso non accettano l’impegno e le regole imposti dagli insegnanti. Piuttosto vorrebbero patteggiare, e rifiutano il rigore deontologico che la scuola impone mentre mette in luce modelli familiari deboli ed educativamente carenti. Meglio criticare e disconoscere un’autorità scomoda  e ingombrante. Meglio rifiutare un’autorità che impone quotidiane prestazioni didattiche e comportamentali. Meglio attaccarla, metterla fuori gioco, rilevarne carenze presunte o reali, scoprirne difetti, ridicolizzarla, svergognarla.

La vignetta che rileva il cambiamento della scuola è testimone di un cambiamento ben più profondo della nostra società, che investe la  famiglia e tutti i  modelli di riferimento dei nostri giovani. Denigrare gli insegnanti può avere l’effetto di sgretolare importanti canali di contenimento in soggetti in età evolutiva. Tuttavia, è diventato uno sport facile, comodo, popolare e a impatto sicuro. Uno sport a servizio della demagogia che va evitato. Uno sport insidioso e pericoloso per i nostri fondamenti educativi. Uno sport che non fa male solo agli insegnanti, ma alla società intera.