Bashar al-Asad si siede sulle molte poltrone già occupate dal padre, Hafiz al-Asad, dall’anno 2000.
Hafiz era famoso come la “volpe di Damasco”. Celebre per l’astuzia, dunque, ma di certo non alieno all’uso della forza. In casa e fuori. Risaputo il massacro di Hama, dove s’ignora il numero esatto dei morti ma questo oscilla tra i 10 e i 40.000. Infiniti gli eccidi nelle carceri. Nota la continua interferenza nelle vicende del Libano, considerato alla stregua di una provincia impropriamente staccata un giorno dal potere coloniale, francese in questo caso.
Osservo una singolare similitudine con la questione del Kuwait. Saddam Hussein, per giustificarne l’invasione, fece ricorso al pretesto della sua passata appartenenza alla stessa ripartizione amministrativa dell’Impero Ottomano, poi ignorata dagli inglesi. Corsi e ricorsi, verrebbe da dire.
Non è la sola analogia tra il regime siriano e quello del defunto dittatore irakeno. Hafiz al-Asad inizia la carriera politica dopo essere diventato ufficiale dell’aviazione militare siriana ed essersi iscritto, a 16 anni al partito Ba’th. Saddam Hussein entra pure nel partito Ba’th, Partito della Risurrezione di tendenze socialiste, e si presenta all’inizio come un laico riformatore. Entrambi per buona parte della vicenda politica si appoggiano, ricevendone supporto, dalle minoranze religiose presenti nei rispettivi paesi. Cristiani, drusi, mussulmani non conformisti, forniscono buona parte del personale politico e militare. Temono che la conquista del potere da parte dei mussulmani sunniti porti a un regime integralista. Cioè sono preveggenti. Più forti in Siria dove contano sulla presenza degli alauiti, una confessione mussulmana che i sunniti considerano eretica e dai cui ranghi escono gli stessi Assad, le minoranze religiose godono di condizioni assai favorevoli.
I problemi cominciano in Irak, perché gli sciti a un certo punto diventano maggioranza numerica, rovesciando il rapporto con i sunniti. Saddam Hussein, però, è un sunnita e finisce per appoggiarsi su questi e sui cristiani per conservare il potere.
In Siria, invece, il numero dei non mussulmani o mussulmani non conformisti è tale da garantire una base di consenso più ampia ad Assad. Per i sunniti, in particolare i Fratelli Mussulmani, non resta che l’arma insurrezionale. Come visto, però, la reazione è sempre rapida e spietata.
Il delicato mosaico è complicato dalla presenza dei Curdi che sono sunniti ma non arabi e neppure semiti: si tratta di una popolazione iranica e pertanto indoeuropea. A differenza degli iraniani, indoeuropei ma sciti. In gran parte.
Il 20 marzo 2003 una coalizione internazionale a guida americana attacca e occupa l’Irak. Mette fine in poco tempo al potere di Saddam Hussein e frantuma lo stato irakeno. Gli sciti oppressi vengono installati nei posti di comando, i Curdi ricevono una grande autonomia ma non l’indipendenza alla quale aspirano, e i sunniti sono di fatto emarginati.
Il vuoto di potere seguito alla caduta di Saddam Hussein, unito al troppo rapido disimpegno della Coalizione, produce una situazione di disfacimento istituzionale e, ben presto, l’aperta guerra civile in Irak. Dopo otto anni di continuo conflitto interno, nella primavera 2011 una serie di manifestazioni e di rivolte, anche armate, nella vicina Siria, apre scenari imprevisti.
Il figlio di Hafiz, Bashar al-Asad, questa volta non riesce a contenere l’insurrezione, prevalentemente sunnita e in piccola parte laico-democratica. Il regime vacilla, ampie parti di territorio siriano diventano terra di nessuno dove nessuno vuole intervenire. La situazione degenera. Si fanno strada gruppi sunniti radicali.
A questo punto, Shamir Abd Muhammad al Khilifawi, nome di battaglia Haji Bakr, un ex colonnello dei servizi segreti di Saddam Hussein, elabora una strategia audace e di ampio respiro. L’idea è quella di impadronirsi di quanto più territorio siriano possibile per trasformarlo in base di lancio per la riconquista sunnita dell’Irak. Decide, inoltre, di utilizzare l’arma della Guerra Santa, Jihad, come collante ideologico e fine esistenziale da offrire alle reclute.
La Baghdad degli Abbasidi, del resto, dopo la Damasco degli Omayyadi era diventata il centro del grande Califfato capace di unificare tutti, o quasi, i credenti nella Umma, la comunità dei mussulmani.
Il progetto di Haji Bakr, dunque, si fonda su una profonda conoscenza della realtà presente e della storia alla quale unisce la capacità di tratteggiare una prospettiva futura, quest’ultima resa esplicita dal richiamo a un passato glorioso. La forza del Mito e la sua capacità seduttiva completano la miscela. Per renderla operativa gli bastano uomini decisi a combattere, nel Vicino Oriente ne trova quanti vuole, e denaro: anche questo gli arriva per molte e, spesso, impreviste vie.
L’esperienza nell’organizzare una rete spionistica e l’abile uso dell’infiltrazione all’interno delle comunità locali, frutto degli anni al servizio di Saddam Hussein, producono i primi risultati. Il neonato ISIS, Stato Islamico della Siria e del Levante, si forma all’inizio in forma quasi pacifica, offrendo servizi, sicurezza e un’organizzazione pubblica da tempo assenti. Tutti elementi che permangono nella struttura del Daesh e senza i quali non sarebbe comprensibile il suo successo presso le popolazioni. Sia chiaro, la repressione da sola non basta.
Alla fine emerge anche un leader carismatico, Abu Bakr al-Baghdadi, che si autoproclama califfo, e si avvale di un gruppo ristretto di consiglieri. Al-Raqqa viene proclamata capitale e nel settembre 2014, ormai, l’ISIS o Daesh si articola con una completa struttura di governo.
Il Daesh eroga servizi, incassa tasse, pratica il controllo di prezzi e salari, si finanzia tramite la vendita di petrolio dai campi conquistati, provvede alla manutenzione delle strade e delle reti idriche ed elettriche, ha una polizia e un esercito, apre scuole e centri di assistenza e propaganda.
E continua ad avanzare sul piano militare. Come mai? Raccoglie consenso e s’impone con forza spietata sui nemici. Chi non si allinea, muore. Spesso in modo crudele. Agisce sull’immaginario della gente, adopera approcci diversi se questi sono mussulmani “recuperabili” o infedeli e “irrecuperabili”. Niente di nuovo, mi viene da dire, niente di originale. Siano noi in Europa o negli USA a non capire.
Soprattutto non ha avversari sul campo. L’ha dovuto ammettere anche il Segretario alla Difesa americano Ashton Carter: gli irakeni, sciti aggiungo, non combattono. Hanno persino provato a farli affiancare dagli ultranemici iraniani, sciti anche loro, e supportare dai Curdi. A sostenerli con l’appoggio aereo, a riequipaggiarli, facendoli addestrare da migliaia di istruttori americani ed europei. Niente da fare.
La faccenda ricorda molto da vicino quella del Viet-Nam: sembra che non s’impari mai dai propri errori. Come spingere i soldati a battersi? Cioè a rischiare morte e mutilazioni sul campo? Serve qualcosa d’importante, per la quale valga la pena rischiare.
Adesso Palmira. Ci sono stato nel novembre 2001. Le rovine della capitale della Regina Zenobia rappresentavano la tappa principale di un viaggio archeologico iniziato a Damasco. Da qui a Bosra, Palmira appunto, Aleppo, la Valle dell’Oronte con Apamea, Ebla, la soglia di Homs e il Krak dei Cavalieri, Mahalula con la grotta di Santa Tecla e il Padre Nostro recitato in aramaico.
Apro il giornale o il computer e la televisione e mi domando: cosa sarà rimasto? Che fine avrà fatto l’autista del pulmino, un corpulento sunnita di Homs che non smetteva mai di fumare, o l’interprete, un damasceno dai baffi spioventi appena sposato? Gli piaceva mostrare le foto della moglie. Prima e dopo le nozze. Prima esibiva lunghi capelli ramati, credo non fossero naturali, occhi castani e due guance belle rosse. Dopo, appariva velata e con un’aria triste e rassegnata. Pregiudizi occidentali?
Forse, ma è certo che tutte le notizie in arrivo da Siria e Irak andrebbero controllate più e più volte, senza lasciarsi trasportare dalle emozioni, perché la guerra si è sempre fatta in molti modi, militari e non militari, convenzionali e non convenzionali. L’obiettivo è fiaccare l’avversario, abbatterlo magari senza combattere. La via migliore, quella decisiva, è svuotarlo dentro. Togliergli la voglia di lottare, seducendolo o terrorizzandolo. La propaganda, quindi, gioca un ruolo decisivo.
Occorrono sguardo lungo, discernimento e distacco mentale. Saper valutare e decidere dopo aver messo a punto una strategia che porti alla meta desiderata. Prima di tutto, quindi, serve un approdo. Oppure ci si rassegni a vedere la bandiera nera del Califfato su Baghdad e Damasco, cioè sui più ricchi giacimenti di petrolio del mondo e nella posizione strategica chiave per costruire una grande potenza. Niente di diverso dal sogno di Saddam Hussein, giusto per citare il caso più recente. Siamo pronti a questo?
Certo, alla fine ci si deve pure rassegnare: se si vuole ottenere un risultato sicuro la strada è una sola, il lavoro bisogna farselo da soli. Cioè il ragionamento sviluppato da Shamir Abd Muhammad al Khilifawi, nome di battaglia Haji Bakr, che ha trovato in Abu Bakr al-Baghdadi l’uomo giusto per interpretare il ruolo. Prima che il colonnato di Palmira finisca come i Buddha di Bamyan: e con questo non intendo le statue.

Federico Moro vive e lavora a Venezia. Di formazione classica e storica, intervalla ricerca e scrittura letteraria, saggistica, teatrale. È membro dell’Associazione Italiana Cultura Classica e della Società Italiana di Storia Militare.
Ha pubblicato saggi, romanzi, racconti, poesie e testi teatrali.