Queste righe potrebbero fare il paio, io credo, con l’interessante articolo di Carlo Rubini, appena pubblicato (mentre scrivo) su questo blog, con il titolo di “Turismo a Venezia: le nuove invasioni barbariche”.
Dunque lo scorso maggio, in una bellissima giornata di festa, conduco alcuni miei ospiti forestieri a visitare il Castello Sforzesco di Milano. Nella magnifica cornice architettonica dell’edificio e nel sontuoso parco retrostante, si accalca una vera folla di gitanti e di cittadini a passeggio. Ma già che ci siamo, dico ai miei ospiti, che ne dite di dare anche un’occhiata ai musei del Castello?
Dico “musei”, al plurale, perché al Castello ce n’è più d’uno: c’è quello d’Arte antica, il museo della Preistoria e protostoria, la Pinacoteca, il museo Egizio, quello degli Strumenti musicali ed altri. Ebbene, le sale dei musei (ci credereste?…) sono semideserte (tanto quanto sono linde, ordinate e belle), se si escludono i pochissimi visitatori e gli addetti di turno, con tanto di divisa d’ordinanza, molto professionali, anche: ma a loro tutt’al più puoi chiedere lumi su un itinerario, o sulla via più breve per riguadagnare l’uscita. Stop. Altro non sanno (e non è certo che se ne debba fare una colpa a loro).
Insomma, quasi nessuno, nei musei. Complice la bella giornata, si dirà. Vero. Ma questo non basta a spiegare “l’assenteismo” degli utenti potenziali (leggasi “cittadini”). Altra scena, in un’altrettanto bella giornata di aprile: Baia (Campi Flegrei, Napoli), dove sorge, su uno spettacolare promontorio sul mare, un imponente e meraviglioso castello aragonese. All’interno del quale castello si sviluppa un pregevolissimo museo archeologico. Con sale altrettanto linde e belle, ordinatissime (e con affacci meravigliosi sul golfo, s’intende).
Anche in questo caso pochissimi visitatori. La verità è che i musei, se li conosci, li eviti. Perché? Perché, ad onta delle pregevolissime e virtualmente interessantissime cose in essi esposte (reperti, dipinti, sculture e quant’altro), che cosa capita a te, visitatore medio (di cui mi considero un tipico esemplare, nonostante una certa formazione umanistica, che non mi manca)?
Ti capita di aggirarti sperduto tra sale e sale e sale, piene di teche, vetrine e simili. In cui le preziose testimonianze del passato sono disposte, sì, in bell’ordine, e recano pure cartellini didascalici con le minime informazioni identificative del caso. Ma dopo che lei hai lette, che te ne fai? Ah, ecco il nome dell’autore del pregevole tale dipinto, la sua data di nascita e quella di morte, la “scuola” di appartenenza, la provenienza dell’opera e, che so, il numero d’inventario.
Il numero d’inventario, per carità, sarà prescritto per legge, ma a me visitatore qualunque, quanto me ne cale, del numero d’inventario? Così come assai poco mi servono le quattro informazioni poste accanto all’opera. Una volta che le ho lette (ammesso che abbia voglia di strizzare gli occhi ad ogni tappa) che cosa ne so più di prima? Cosa ho imparato? Cosa ho veramente capito? Cosa mi può indurre a tornare in un museo dopo che ho pagato una tantum il mio obolo morale alla Cultura con la c maiuscola? Un accidente di niente, se si esclude che magari ho visto un po’ di bellezza (che certo non nuoce alla salute) o mi sono abbandonato a qualche “oh” e a qualche “ah” di perplessa meraviglia.
In non pochi paesi d’Europa (mi dicono quelli che hanno viaggiato) appena metti piede in un museo vieni bloccato da un addetto di turno che ti chiede la tua lingua e poi subito ti dirotta all’idonea guida. E così, visitando visitando, ascolti e capisci: capisci il senso reale di ciò che stai vedendo, e cresci in cultura e cittadinanza. Si chiama educazione permanente del cittadino: la quale formazione, non dovrebbe mica concludersi, in un paese civile, con la fine del corso di studi medi. E oggi, poi, con la tecnologia di cui disponiamo, non mancano certo i modi per evitare che il visitatore incolto (ma volenteroso) di un museo, si aggiri per gli spazi espositivi come un’anima alla deriva.
E adesso, per passare dai musei a tutto il resto, dirò che, musei a parte, in Italia manca ed è sempre mancata una cultura della divulgazione, quella che sta a fondamento della vera cittadinanza. Noi siamo un paese di parolai, lo siamo sempre stati. I medici parlano in medichese, gli avvocati in avvocatesco, gli ingegneri in ingegnerese e via di questo passo. E perché lo fanno? Per vari motivi.
Anzitutto perché sono spesso ignoranti: cioè, conoscono magari la loro materia (quando va bene, si capisce), ma sovente non sanno parlare né scrivere. In secondo luogo perché sono ignoranti: essi credono che parlare difficile sia un pregio, invece è un difetto: è molto più difficile, in realtà, parlare e scrivere chiaro, farsi capire da chi non sa. In terzo luogo perché sono ignoranti: credono che se parlano difficile appaiono più importanti. In quarto luogo perché parlare ostico (infarcendo il proprio dire di tecnicismi o, peggio, di anglicismi, che oggi vanno per la maggiore) serva a dire: io ho il sapere, il “potere del sapere” e tu invece non sai niente: devi stare a quello che ti dico io, ti devi fidare ciecamente. Parlare astruso è un modo per avere in mano il potere, dai tempi del manzoniano dottor Azzeccagarbugli.
Come si viene fuori da cotanta incultura della divulgazione? Qual è il bandolo della matassa? Come si viene fuori da questa carenza gravissima, per cui la gente che non sa, anziché essere presa per mano e condotta a comprendere le cose difficili (siano esse tecniche o artistiche poco importa), viene viceversa disgustata al punto che alla cultura non si accosta mai più? Francamente non lo so. L’Italia è un paese malato da tempo immemore di quella che definirei “l’incultura del parlare difficile”. Però, che so, almeno parliamone tra di noi. Hai visto mai che, dai e ridai…

Nato a Napoli nel 1953, vive e lavora da quarant’anni a Milano. Insegna lettere nella scuola superiore. Ha collaborato con agenzie pubblicitarie, con società di ricerche di mercato e con numerose testate specializzate in management, packaging, marketing, edilizia, arredamento. Ha pubblicato con la Mondadori alcuni testi scolastici e di recente una raccolta di brevi saggi di costume dal titolo “La bussola del dubbio”.