A volte, confesso, rischio di non riconoscermi in questa terra. Una terra che, ad esempio, così come ha vissuto sulla propria pelle il peso enorme della emigrazione così per paura si chiude a riccio nei confronti del “diverso” da se per colore di pelle o del diverso dio a cui rivolgere le proprie preghiere. Una terra dove il “fatturato” è stato per tantissimi la nuova religione e chissenefrega se i cinema vengono chiusi, i teatri trasformati in hotel e le librerie in negozi di maschere contraffatte o in negozi da un euro tutto compreso e si signora mia la gondola è Made in Taiwan.. A volte, lo confesso, questa terra mi da nervoso. Un nervoso grande che rasenta la rabbia. Una terra dove i baciabanchi sono lesti a dire no alle unioni omosessuali o al l’accoglienza di gente che scappa da guerre e miserie ma intanto, la notte, coi loro SUV, affollano via Fratelli Bandiera in cerca di una emozione a pagamento, cinque minuti da cerniera abbassata in fretta ed un “ciao come ti chiami?” mentre si apre il portafoglio. Scrivo queste brevi note, che a qualcuno possono sembrare sconclusionate, mentre sulla mia testa volteggia un elicottero forse dei Vigili del Fuoco, forse della Polizia. Sono 48 ore che l’aria, qui da noi, è permeata dai suoni di sirene che l’orecchio, il mio orecchio, non sa distinguere. Sono 48 ore che una gigantesca bomba mossa da venti a 300 km/orari (come una macchina di formula uno impazzita e il paragone serve a me perché in questi frangenti solo i confronti ti aiutano a percepire la realtà) ha distrutto tutto ciò sopra cui passava: case, capannoni, strade, tralicci dell’alta tensione. È riuscita a sollevare un’ auto, farla letteralmente volare per 150 metri, rovesciarla con violenza inaudita al di là di un fossato dilaniando la persona che si trovava all’interno. 1 morto, 200 sfollati (parola che qui, da noi, in questa Riviera del Brenta che con la testa accarezza Venezia e coi piedi sfiora Padova, avevamo sentito solo in televisione) , 60 milioni di euro (almeno) di danni . Ci sono passato per quelle zone. A nemmeno 12 ore da quel tornado (anche questa è parola che sentivamo solo in televisione). Ci sono passato in sella al mio scooter, schivando macerie, frammenti di vita. Ho pure scattato delle foto quasi sentendomi in colpa perché mi pareva di violare una intimità che in realtà non c’è più fra quelle pareti divelte che mostrano, impudicamente, scene di vita familiare a sguardi indiscreti. Quelle foto sono diventate un post in Facebook uguale a decine di altri post. È come quelli anche il mio coi suoi 60/70 “mi piace” e le sue abbondanti condivisioni. Ma la sola cosa veramente virale cui ho assistito e sto assistendo, anche ora mentre scrivo, è una cosa straordinaria alla quale, la nostra quotidianità, non ci aveva più abituato: la solidarietà. Parola bellissima nella sua semplicità data dal gioco di liquide e dentali e con l’accento finale quasi a darne ulteriore sussistenza, Una solidarietà grande e ed enorme. L’ho vista quella solidarietà. L’ho pesata con le mie mani, con il mio sguardo….
L’ho vista in quei giovani studenti che, sentito della sciagura, il giorno dopo erano lì, in mezzo alle macerie, con guanti e badile a pulire, a muovere le macerie e quasi sorridevi dei loro torsi bianchi da studenti appena usciti dalla maturità e del loro impaccio nell’usare carriola e pale. L’ho pesata in quella signora anziana che, tramite la figlia, si diceva pronta a cucinare un piatto di pasta per 50/60 persone e solo chiedeva dove doveva portarla. L’ho vista nei messaggi che le persone si scambiavano offrendosi di portare acqua fresca a volontari e sfollati. L’ho pesata in un giovane amico poliziotto rimasto in servizio oltre 24 ore per un senso del dovere che credevo ormai smarrito. L’ho vista nei volti di quei sindaci (due, quello di Dolo e quello di Pianiga, miei amici) col volto disfatto e gli occhi pieni di lacrime che pure riuscivano ad indossare una maschera di efficienza perché se cedevano anche loro, chi avrebbe infuso speranza? L’ho pesata, lasciatemelo dire, in un Presidente di regione che in jeans e maniche di camicia stringeva mani, consolava lacrime e sembrava davvero simile tra i simili col suo dialetto vagamente accentato di trevisano (noi della Riviera abbiam vocali chiuse, quasi dure che si aprono man mano ci allontaniamo dalla nostra terra). L’ho vista nel sindaco di Scorze (altro amico), paese lontano venti chilometri da noi, che decide, in sede di bilancio 2015, di aumentare una tantum l’addizionale IRPEF (un sindaco che aumenta le tasse per scelta!!!!) per racimolare soldi in favore dei miei conterranei. L’ho pesata in un artigiano che, con la voce rotta dall’emozione, sfidava la politica dicendo “fateci vedere di cosa siete capaci”. L’ho vista, lasciatemelo dire!, in decine di profughi, si proprio quelli contestati, vituperati, additati quasi al pubblico ludibrio, che in silenzio muovevano carriole e spalavano esattamente come tutti gli altri. Si, scrivo queste note forse senza senso. Forse senza un perché. Ma le scrivo nella convinzione che la nostra terra si è dimenticata purtroppo di ciò che l’ha resa sempre così unica: quella solidarietà immediata, spontanea, quasi artigianale. E con quelle scene negli occhi umidi di pianto, ho capito che ho ragione, a volte, a provare nervoso per questa mia terra. Un nervoso simile a quello di tanti insegnanti quando hanno a che fare con alunni che molto potrebbero dare ma che si accontentano del poco. Perché, al di là dei fatturati, dei baciabanchi è questo il tesoro più prezioso che abbiamo in questa nostra terra. La capacità di rialzarci sempre e comunque. Esattamente come facevano i nostri nonni dopo una grandinata che tutto distruggeva. Ed il tutto nell’assordante silenzio di giornali e televisioni nazionali subito pronti, però, a descriverci le apocalittiche (secondo loro) scene che accadono quando a Roma cascano un paio di centimetri di neve. Non è tempo per piangere, ora è tempo di ricostruire. Ciò che questa tragedia immane e disperante può insegnarci (e forse davvero ci sta insegnando) è il valore grande e insopprimibile del sentirci comunità. Ma una comunità larga, che valica i confini dei singoli comuni ma abbraccia una intera regione. Al di là delle differenze ideologiche, religiose, sociali. Ci sta aiutando, questa bomba da 300 kilometri l’ora, che in sette minuti sette ha devastato, distrutto, ucciso qualunque cosa trovasse sul suo cammino. Ci sta aiutando a capire che la crisi, le paure spesso immotivate non ci vinceranno. Ci sta insegnando che davvero esistono dei legami che nessuno può spezzare, nemmeno 300 kilometri l’ora di un tornado. E forse ci sta insegnando che è possibile ritornare ad essere ciò che eravamo un tempo, Non come nostalgico ricordo dei bei tempi che furono ma come cemento vivificante che costruisce identità attorno alla parola insieme. Si, le tragedie possono anche insegnare. Insegnare ad avere fiducia nell’altro e in noi stessi.
(Per chiunque volesse contribuire alla ricostruzione consiglio di visitare le pagine istituzionali dei comuni di Dolo, Pianiga e Mira dove sono a disposizione gli IBAN attraverso cui fare le donazioni).

Vive da sempre nella terraferma veneziana. Per cinque anni è stato Vicesindaco (con delega alle politiche culturali e turistiche) del comune di Mira. Laureato (cum laude) in Lettere a Padova ha collaborato per oltre un decennio coi quotidiani del gruppo editoriale Finegil (La Nuova Venezia, Il Mattino di Padova, La Tribuna di Treviso), con La Repubblica e con Gente Veneta. Si occupa di gestione del personale e della sicurezza presso alcuni musei veneziani. Nel tempo libero ama la montagna e le immersioni subacquee.