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Non riesco a ricordare dove, come e quando Matteo Renzi abbia parlato di “Partito della Nazione”. Da qualche parte e in qualche momento ne avrà pur parlato, ma certo lo nomina pochissimo perché per ora è attento al presente e alla tattica del giorno dopo, per cercare di portare a casa i suoi obiettivi di riforma, destinando le strategie ad altra data. Ma è altrettanto certo è che moltissimi commentatori politici gli attribuiscono questo progetto sotterraneo anche se per connotarlo, in assenza di altre indicazioni provenienti da Renzi, si rifanno alle consuete categorie dello schema sinistra-destra. Per esempio, secondo i commentatori e gli osservatori politici, questo partito che non c’è sarebbe in formazione sotto traccia con lo spostamento e una definitiva stabilizzazione al centro del sistema politico italiano inglobando personale politico della destra berlusconiana da far convivere con una sinistra che non avrebbe alternative fuori e all’esterno. Insomma gli attribuiscono come disegno una sorta di “Grosse Koalition” inglobata in uno stesso partito. Questo, secondo loro, sarebbe il “ Partito della Nazione”

Io credo, o voglio sperare soltanto, che Renzi abbia in mente qualcosa di profondamente diverso, diverso soprattutto da queste alchimie fatte dai commentatori che fanno i conti solo con la classe politica attuale. Intanto penso, o spero, che lui prefiguri un Partito che mantiene inalterati i principi di fondo con cui si è fondato il Partito Democratico, una definizione semplice che non avrebbe bisogno dell’aggiunta dello specificativo “della Nazione”. Perché la Democrazia, a cui non casualmente fa riferimento in modo esaustivo il nome del partito, è una condizione e una pratica che di per sé incarna tutti gli obiettivi, i valori, i principi che l’intera comunità nazionale vuole promuovere e perseguire. La Costituzione Italiana è una costituzione democratica che dovrebbe essere riconosciuta da tutta la Comunità Nazionale. Se il partito Democratico fa riferimento a quella carta fondativa è di per sé un Partito Nazionale, senza neppur bisogno di dirlo o scriverlo. Anni fa con una felice intuizione Deborah Serracchiani diede nome di “Semplicemente Democratici” a un suo raggruppamento interno che in definitiva voleva esprimere questo stesso concetto per attribuirlo a tutto il partito. Cioè: “democratici”, semplicemente, senza bisogno d’altro. E ci si capisce.

Un Partito Democratico se ha questa connotazione di identificazione nell’intera comunità nazionale ha il dovere di svolgere un ruolo guida nel sistema politico, riprendendo in mano quella capacità di controllo e di influenza che come categoria politica va sotto il nome di ‘egemonia’. La versione moderna del termine come ben si sa è attribuita ad Antonio Gramsci che lo prefigurava per la classe operaia e non a caso con caratteristiche non troppo dissimili come obiettivo: la classe operaia, per Gramsci, doveva essere in grado di rappresentare culturalmente gli interessi nazionali dal suo punto di vista. Naturalmente in una situazione sociale ed economica in cui questo disegno di identificazione sarebbe riuscito avviandosi allora la classe operaia ad essere maggioranza in grado di far coincidere i suoi interessi con quelli di tutto il popolo. Mutatis mutandis questa categoria resta sempre verde anche in una situazione in cui le classi sociali si sono scomposte, ricomposte, parcellizzate e liquidizzate. Un’ egemonia non è più possibile come egemonia di una classe che non c’è più o di qualsiasi altra classe che si confonde con le altre e può essere possibile solo come egemonia di un soggetto politico che interpreti tutto l’insieme degli interessi collettivi della comunità. Certamente mediando tra loro interessi parziali, senza essere parziale. Ecco perché a questa capacità di mediazione semmai male si attaglia il termine ‘partito’ che esprime una parzialità che confligge con il voler essere di tutti. Il nome partito è retaggio otto novecentesco; lasciamoglielo, ma sapendo che la democrazia del terzo millennio non può più rappresentare una parte, ma l’intero corpo sociale di una comunità che si riconosce e si sente rappresentata da uno stato che di quella comunità porta il nome.

Per un disegno e un’ambizione del genere non ci si può più accontentare di rimanere nell’eterno perimetro del 35% dei consensi, la percentuale invalicabile di sempre, o almeno da 70 anni, da parte di tutti i precursori del PD attuale e del PD stesso; compreso il 44% dell’europee dell’anno scorso che, con l’astensione in quella occasione elettorale, valeva virtualmente e di fatto il 35% e anche meno (abbastanza vicino ai massimi storici di Berlinguer prima e di Veltroni più recentemente, attestati tra i 12 e i 13 milioni di voti, altro limite in valori assoluti che da sempre resta stabilmente invalicabile, tanti numeri comunque, ma inservibili per una vera egemonia che va fondata su consenso di massa). Non solo, ma a parte gli esordi del ’48 anche la DC della Prima Repubblica, i cui eredi sono in parte nel PD attuale, si dimensionò poi stabilmente sulle stesse massime percentuali , dovendo poi ricorrere per governare ai satellitini del centro. Berlusconi non valicava mai anche lui quel limite e la dissoluzione in pochi anni del suo patrimonio elettorale non dovrebbe essere rassicurante per tutte le forze politiche che si accontentano di dimensionarsi su percentuali alte ma comunque sempre minoritarie. Vedo poi che all’estero i partiti teoricamente insediati nella stessa area del PD, in Francia, in Gran Bretagna, in Germania a volte vincono e sono al governo, a volte perdono, ma sono sempre sul filo di percentuali ancor più basse, che poi magari risolvono con un ballottaggio vincente come in Francia. Tutte però maggioranze di carta velina ai fini della continuità. Per essere egemonici, stabilmente interpreti con continuità dell’intero corpo nazionale, queste parzialità di consensi non bastano più. E’ necessario andar oltre e andar oltre anche allo schema americano in cui il Democratico, anche quando vince come Clinton e Obama, lo fa quasi sempre sul filo di lana dei 3, 4, 5 punti di vantaggio e non di più.

Ecco allora che prende corpo qualcosa di inedito, vale a dire la costituzione di una forza politica democratica in grado di avvicinarsi motu proprio nel consenso a valori numerici in grado di rendere ininfluente lo stesso premio elettorale, in modo da chiudere la bocca a chi vede nel premio una violazione della democrazia; insomma avvicinarsi ad una sorta di “maggioranza qualificata”. Non quella dei 2/3 stabilita per legge in molti stati, richiesta per decisioni di particolare importanza, in relazione alle quali si reputa necessario un ampio consenso ( Costituzione, elezione del Presidente della Repubblica): nessun partito, almeno in Italia, avrebbe mai la forza di percentuali del genere e comunque, quand’anche fosse possibile, creerebbe un immagine controproducente che saprebbe di ‘regime’ e di piglia tutto. Ma prefigurare una forza politica semplicemente democratica che più delle competitrici ottiene solo con le sue proprie forze numeri alti tanto da renderla autosufficiente sembra essere in tutti i contesti sempre più necessaria e non solo in Italia; necessaria per ottenere un’altra condizione di cui a parer mio ha bisogno la democrazia: la stabilità, la rapidità delle decisioni, la continuità nel tempo e il superamento di quella formula edulcorata che, da quando esistono i sistemi bipolari, vede la buona democrazia nel contrario della stabilità: l’alternanza. Quella per cui ogni cinque anni si disfa quello che di buono ha fatto il precursore sconfitto, una democrazia con i piedi d’argilla, rifatta continuamente con gli opposti, che ovviamente della democrazia danno una interpretazione opposta.

Tornando a Renzi il suo problema, e del partito di cui avrà bisogno, non sarà dunque quello di creare questa ‘cosa’ con pezzi di parlamentari transfughi e con trovate di basso profilo. Anche Lorenzo Colovini in un articolo qui a fianco sottolinea l’importanza dell’assorbimento del centro da parte di Renzi, ma si capisce che intende che ciò stia già avvenendo sui contenuti a favore di quell’elettorato e non con annessioni di pezzi di corpo politico autoreferenziale. Perchè Renzi dovrà rivolgersi agli elettori nel loro insieme, e non solo a quelli che si riconoscono nel centro, chiamandoli a sostenere senza intermediazioni la ‘cosa’. E’ li, direttamente nel corpo elettorale, che deve trovare i suoi numeri. E per farlo deve dare la sensazione a tale vasto corpo elettorale che il partito che lui guida interpreta e garantisce più e meglio di altri tutto l’insieme dei valori democratici costituzionali. A questo punto chiamare il partito democratico con lo specificativo “ della Nazione” sarebbe, per usare una figura retorica della linguistica, una tautologia.