L’Europa ha bisogno di costruire una vera dimensione sociale che si aggiunga alle già avviate dimensioni economica, fiscale, bancaria politica e alle ben note quattro libertà .
Una simile necessità appare evidente anche alla luce del fatto che il recente rapporto sull’aggiornamento della strategia Europa 2020 afferma che dei cinque obiettivi che l’Unione Europea si è prefissata di raggiungere entro il 2020, quelli relativi all’occupazione (avere un tasso di occupazione del 75%) e alla povertà (riduzione a 20 milioni del numero di poveri) non verranno quasi sicuramente raggiunti.
Non c’è dubbio che le poco incoraggianti previsioni dipendano anche dalla crisi economica e sociale di cui anche l’Europa è stata investita a partire dal 2008, ed è per questo che è interessante cercare di comprenderne le cause.
Secondo Ralf Dahrendorf, all’origine del terremoto finanziario che ha colpito buona parte dei paesi dell’Unione c’è stata una sorta di overdose di affarismo speculativo all’insegna di una fede utopica e incondizionata nelle capacità di autoregolamentazione del mercato.
Ma c’è di più, anche l’Unione Europea è stata attraversata dal passaggio dal “capitalismo di risparmio” al “capitalismo di debito”.
Un simile fenomeno, ha comportato l’erosione di requisiti come il lavoro e il risparmio, due elementi vitali per lo stesso sviluppo e successo di un sistema capitalistico inteso nell’accezione più sana.
Parametri maggiormente attrattivi, capaci di soddisfare l’appagamento immediato dei propri desideri, hanno preso il sopravvento sull’idea del soddisfacimento differito dei frutti del lavoro, con la conseguenza però che per realizzare i primi, è stato necessario contrarre un debito dopo l’altro facendo così emergere il preoccupante dato riferito a Luglio 2014, secondo cui in Europa circa 120 milioni di persone, ovvero il 24% della popolazione, sono a rischio povertà o esclusione sociale.
Per rimanere soltanto all’Italia, l’Istat ha rilevato che il 12,5% delle famiglie si trova in condizioni di povertà relativa, mentre l’incidenza della povertà assoluta, che significa l’incapacità di acquisire i beni e i servizi necessari a raggiungere uno standard di vita minimo accettabile nel contesto di appartenenza, è aumentato dal 6,8% al 7,9%.
Anche alla luce di questi dati, emerge l’attualità del dibattito sull’introduzione di una dimensione sociale all’interno dell’Unione Europea, sebbene uno dei più rilevanti ostacoli ad una sua compiuta realizzazione, sia costituito dall’applicazione del principio di sussidiarietà , che considera la gestione dei temi sociali una responsabilità nazionale.
Non è un caso che a tal proposito già nel 2012, l’allora Commissario Europeo per l’occupazione, l’Ungherese László Andor, sottolineasse la necessità , data la mancanza di un sistema di welfare unico europeo, di un più forte coordinamento sui temi sociali tra le Istituzioni e i paesi membri.
Allo stesso modo, nel rapporto dei quattro Presidenti dal titolo “Towards a genuine economic and monetary union” presentato nello stesso anno da Herman Van Rompuy, veniva raccomandato che politica economica e politica sociale non potevano rimanere separate.
Oggi di fatto all’interno dell’Unione Europea esistono almeno quattro diversi tipi di stato sociale: anglosassone, mediterraneo, continentale e nordico.
La coabitazione di sistemi diversi suggerirebbe la quasi impossibilitĂ di raggiungere una reale armonizzazione sociale.
Nonostante tutto però, l’ultimo Joint Employment Report, ovvero l’allegato che vara l’inizio di ogni Semestre Europeo ha proposto per la prima volta l’utilizzo di parametri relativi ai temi sociali e occupazionali per sorvegliare e migliorare i processi nazionali di assestamento dello stato sociale.
Così oltre ai consueti indicatori economici, sono stati aggiunti indicatori come il tasso di partecipazione, il tasso di disoccupazione di lungo periodo, quello di disoccupazione giovanile, il tasso di rischio povertà e quello di esclusione sociale.
Il limite di questi nuovi indicatori purtroppo è rappresentato dal fatto che non è prevista alcuna procedura di infrazione per quegli stati che riportino valori squilibrati o eccessivi.
In questo momento però chiedere all’Unione uno sforzo maggiore significherebbe inevitabilmente affrontare i nodi connessi al sostegno del reddito contro la povertà , vale a dire il salario minimo e il reddito minimo universale, due temi rispetto ai quali però incombono due ostacoli e una preoccupazione.
Da una parte il divieto sancito dall’art. 153 del Trattato di Lisbona che vieta che tra le competenze dell’UE in ambito di lavoro e occupazioni rientrino quelle relative al livello o ai meccanismi di formazione delle retribuzioni.
Dall’altra il piano di investimenti da 300 miliardi di Euro per i prossimi tre anni presentato dalla Commissione Europea nel luglio del 2014 e partito a febbraio di quest’anno, all’interno del quale temi come il lavoro e il rischio povertà lasciano spazio ad altre priorità quali le infrastrutture, l’economia digitale l’innovazione e l’energia.
Infine la preoccupazione che l’Unione, trascurando la dimensione sociale, comprometta le basi di una dinamica e competitiva economia di mercato che in Europa ha fino ad oggi permesso l’equa ripartizione della ricchezza e la spinta all’autorealizzazione individuale.

Nasce a Bassano del Grappa nel 1980, cresce a Venezia e si laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Ferrara con una tesi in Diritto Costituzionale seguita da Roberto Bin e Giuditta Brunelli. Nel corso dell’Università studia materie giuridiche presso la facoltà di legge del King’s College di Londra.
Nel 2007 consegue il Master in Istituzioni parlamentari europee e storia costituzionale, diretto da Fulco Lanchester presso l’Università “La Sapienza” di Roma, con una tesi finale su: Elezioni primarie tra esperimenti e realtà consolidate seguita da Stefano Ceccanti.