Sponsorizzare una città “scrigno di tesori” come Venezia è un veicolo per recuperare risorse da reinvestire nel tessuto cittadino.
E’ sicuramente una bella suggestione, può sembrare anche una brillante idea. Che richiede una gran dote di scientificità, per quanto il marketing possa essere scientifico.
Ci sono alcune domande che sorgono spontanee: se finora il risultato è stato scarsino, a parte i pur meritevoli e generosi impegni di alcuni illuminati imprenditori, ultimo in ordine di tempo Renzo Rosso per il Ponte di Rialto, lo si deve alla scarsa qualità del management para-pubblico che ha preso in carico questa missione? certamente anche sì, ma allora si dovrebbe cercare di capire perchè è l’Italia intera, dal Manzanarre al Reno, dalle Alpi al Lilibeo, che non è in grado di sfruttare questa leva.
Perchè anche Firenze e Roma, per rimanere ancorati solo alle altre due icone internazionali per cui l’Italia è conosciuta nel mondo, sono nelle stesse condizioni veneziane: non scuciono euri in misura rilevante tale da rendere attivo il bilancio.
Ci deve essere qualcosa d’altro, perchè il marketing e gli investitori di solito non si lasciano sfuggire le occasioni e le opportunità.
E l’altro potrebbero essere la ferraginosità delle leggi e dei regolamenti; ma anche “il clima” cittadino per cui ad ogni cartellone esposto, anche quelli di ottima fattura e qualità, viene riservato un trattamento di assoluto fastidio se non addirittura di aperta ostilità. Salvo poi reclamare sempre e soltanto che si può fare altro (il benaltrismo imperante) per recuperare gli stessi denari: come e dove nessuno l’ha mai spiegato.
E l’altro potrebbe essere ancora lo scarso riconoscimento socio-economico che deriva da investimenti di questa natura: quasi fosse dovuto e non invece una necessaria e utilissima collaborazione che però dovrebbe essere impostata da subito “alla pari”: tu metti a disposizione spazi, opere, monumenti preziosi e io metto a disposizione denari in misura cospicua per dare risalto al mio brand, al mio prodotto che in ogni caso, soprattutto se già gode di un riconoscimento largo, qualche volta a livello persino mondiale, aggiunge anche lui un valore immateriale, ma tangibilmente percepibile all’ambiente nel quale viene inserito.
Mutatis mutandis, solo per provocare, pensiamo al Hard Rock Cafè di Bacino Orseolo, a tutte le vetrine di tutte le maggiori griffe del fashion business: è vero che sfruttano la clientela internazionale che viene in città e quindi il brand Venezia (e parimenti Firenze, Roma, Milano etc), ma nello stesso tempo arricchiscono l’offerta di una città che altrimenti rimarrebbe povera e molto rinchiusa in sè stessa.
Allora, allargando il raggio d’azione, non c’è da sorprendersi se a qualcuno (Joe Tacopina) è venuto in mente di rifondare a Venezia-Mestre una società calcistica, ripartendo dalla serie D, per sfruttarne la sua collocazione territoriale, il suo brand (Venezia FC) che ha un valore “a prescindere” dal valore sportivo in sè stesso; perchè la piazza di Venezia non ha certamente mai avuto un palmares nemmeno paragonabile, non solo alle tre capitali del calcio nazionale (Milano, Torino, Roma), ma nemmeno a qualche nobile “provinciale” che non può vantare uno scrigno pieno di così tante bellezze (Napoli, Bologna, Genova, Verona solo per fare qualche esempio di scudettate).
Ecco questo potrebbe essere uno di quei modi nuovi e intelligenti di andare al di là degli strumenti consueti del fare marketing attraverso la comunicazione, sfruttando invece l’intreccio virtuoso con una comunità, con il suo territorio di riferimento, con le sue Istituzioni, con la sua società “civile”.
Se son rose fioriranno e allora sì che “macchè vendere Chagall e Klimt, vendiamoci Venezia, ogni anno” (cfr E. Dal Carlo qui su LG).

Veneziano, con i piedi nell’acqua, dalla nascita (1948). Già Amministratore Delegato di una Joint Venture italo-tedesca di accessori tessili con sede a Torino. Esperienze di pubblico amministratore nei lustri passati. Per lunghissimi anni presidente del Centro Universitario Sportivo di Venezia (CUS Venezia)