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Erano belle, giovani, affamate di vita e di mondo. Si sentivano immortali, come tutte le persone della loro età, e sono morte. Due ragazze argentine, una bionda e una bruna, Josè Maria Coni e Marina Menegazzo, vent’anni, anno più anno meno, erano partite dall’Argentina per visitare l’Ecuador. Scoprivano, felici, la “Mitad del Mundo”, zaino in spalla, pochi soldi in tasca, tanti sogni e un desiderio di indipendenza nel cuore che ha segnato inesorabilmente i loro destini. Uccise a bastonate nel cranio e accoltellate, denudate, chiuse in un sacco nero e lasciate, come spazzatura, sulla spiaggia. Umiliate, annullate, cancellate dalla Terra perché non avevano ceduto alle avances dei loro carnefici.

Un fattaccio, questo, avvenuto a fine febbraio, che mi ha colpito. Prima di tutto perché non può non colpire un simile orrore. In secondo luogo perché, quando ho cercato, nel Web, ulteriori dettagli sulla vicenda, ho scoperto che la notizia aveva scatenato un vespaio di reazioni che, di sicuro, non fanno onore al genere umano. Che, anzi, destano solo imbarazzo e vergogna di farne parte.  Reazioni che esprimono un pensiero antico, crudele, brutalmente conservatore, ingiusto. Come se quelle ragazze se la fossero cercata. “Ma sì, insomma, due ragazze, in giro per il mondo, sole, pronte a dormire sotto le stelle, non dovevano poi essere così sprovvedute, e non ditemi che non pensavano di provocare uomini eccitati da tanto ardire!”. E ancora: “Che vestiti avevano? Quanto procaci erano? Come si muovevano? Perché erano sole? Perché si aggiravano in luoghi appartati?” E inoltre: “Quali genitori incoscienti le avevano allevate, per trasmettere loro questo spirito di libertà?”.

Forse tanta ingiustificata acrimonia spiega l’alto numero di episodi di femminicidio in America Latina. Ed è inquietante che questo termine, da pochi anni coniato (appena quattro o cinque), sia diventato così ricorrente. Tanto ricorrente da far pensare che non si tratti di un’esclusiva prerogativa ispanoamericana. In fondo, il femminicidio altro non è che l’espressione della pretesa di disporre del corpo di una persona. Che, per l’appunto, è solo un corpo. Un corpo che si può mutilare, violentare, uccidere e abbandonare. Per poi chiedersi quanto responsabile una donna sia della violenza subita e della sua morte.

Ma veniamo a noi, e al nostro civile Belpaese, dove il problema del femminicidio e della violenza sulle donne è ben lungi dall’essere risolto. Se pensiamo che solo nel 1981 (l’altro ieri, insomma), in Italia, sono state cancellate le infamità del delitto d’onore e del matrimonio riparatore (residuati legislativi del Codice Rocco, in vigore nel fascismo), e solo nel 1996 (praticamente ieri), è passata la legge secondo la quale la violenza sessuale è un crimine contro la persona e non più contro la morale, ci rendiamo conto di quanta strada dobbiamo ancora compiere. Sì, perché, se le conquiste in campo legislativo sono un importante indicatore di civiltà, i centimetri del vestito o la scelta, da parte di una donna, di indossare  la minigonna anziché i jeans, costituiscono ancora un valido coniglio nel cilindro dell’avvocato-prestigiatore che si appresti ad assumere la difesa di uno stupratore. Pregiudizi vetusti e malevoli, che offendono, umiliano avvelenano e uccidono non una, ma dieci, cento, mille volte una donna.

Crimini come quello commesso ai danni di JosĂ© Maria e Marina urlano giustizia. E travalicano i confini delle nazioni e dei continenti. Urlano una giustizia che non è solo quella delle leggi dello Stato, sia pure fondamentale. Ma è la giustizia della pietas, della solidarietĂ , della condivisione, della comprensione, del rispetto verso tragedie che si ripetono con frequenza inesorabile. Una giustizia che si nutre di amore. Attenzione, però: il troppo amore (e in questo caso penso alle violenze commesse in ambito familiare), quando diventa brama di possesso, cieca pretesa di governare la vita di un altro, è esiziale. Fino al punto di uccidere. Ogni volta che si compie un delitto, noi donne moriamo tutte un po’.  E moriremo sempre di piĂą se non capiremo che non ci si salva nascondendosi o rinunciando alla libertĂ , nĂ© tanto meno mascolinizzandosi, ma solo inzuppandosi di vita. Unico, elementare, scontatissimo – ma infallibile – strumento contro la cultura della morte.