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E’ da ritenere proprio normale e scontato che la politica energetica nazionale venga decisa per via referendaria, sull’onda o dell’emotività, o delle lobby (quella «storica» dei petrolieri ma anche quella «rinnovabilista» più recente, cresciuta a colpi di incentivi pubblici: 12,9 miliardi nel 2015), o sulla base di equilibri politici tra i partiti (e anche equilibri al loro interno come nel caso del Pd)?

Curiosamente, faceva notare qualcuno sui social network, dopo i fatti lucani l’Italia risulta al momento essere l’unico Paese produttore al mondo che taglia la sua produzione di petrolio, senza neppure fare parte dell’Opec. E’ una bella battuta, ma fa pensare.

Dopo di che viene spontaneo chiedersi il senso vero e profondo di questo referendum; la coerenza o meno del richiamo all’astensione che fa il paio con la mobilitazione forzata che serve non tanto a rendere giustizia al quesito referendario, depotenziato al massimo dopo tutti i correttivi migliorativi che il Governo ha introdotto con la legge di Stabilità, ma a fare la guerra, nemmeno troppo sotterranea, al Premier cercando ogni appiglio per delegittimarne l’operato quotidiano e segnarne il percorso politico.

Non sarà un caso che attorno a tutto questo si siano coagulate tutte le forze di opposizione: chi per un senso “dovuto” alla politica ambientalista tout court, chi per una ragione di opportunismo becero e speculativo, chi per un malcelato desiderio di giustizialismo a prescindere, all’insegna della politica “del Terrore” di rivoluzionaria memoria (1789). Di chi cerca la giustizia nelle piazze prima ancora che nelle aule giudiziarie. Sarà anche vero che la popolazione è sensibile ai temi della trasparenza e nutra un senso di ripulsa per la corruzione diffusa, ma la questione del referendum c’entra davvero poco con questi temi.

Matteo Renzi male ha fatto nel formulare l’appello all’astensione, perchè lo strumento referendum è pur sempre uno dei cardini sui quali si basa il funzionamento della nostra democrazia e la libertà di espressione passa anche da qui. Non mi sembra davvero retorico il richiamo alla Resistenza e alla Guerra di Liberazione nazionale del secolo scorso che ha generato questa democrazia con tutte le sue perfettibili regole. Meglio avrebbe fatto a richiamare la partecipazione, seppure su un tema ormai così sfumato, e sostenere apertamente le ragioni del NO (che significa lasciare continuare le trivellazioni fino ad esaurimento dei “giacimenti”) proprio per rispondere all’esigenza di cui all’incipit di questa riflessione: quale politica energetica nazionale dato che il Paese dipende per i due terzi dei suoi consumi di energia da petrolio e gas, che vengono importati per quote intorno al 90 per cento.

Il che fa dire che ci sono parecchi e fondati motivi per i quali il futuro energetico nazionale debba sempre più fare affidamento su fonti rinnovabili che per il momento coprono (consumi di energia per fonti primarie, dati del Mise relativi al 2014) poco più del 20 per cento del fabbisogno complessivo, metà però grazie al «vecchio», collaudato ma anche ampiamente sfruttato idroelettrico.

E c’è un’altra considerazione da fare, che non è proprio un corollario insignificante: nel mondo occidentale si riesce a fare industria petrolifera (e anche fotovoltaica ed eolica) senza che le Procure debbano intervenire con grande frequenza, mentre lo stesso in Italia non avviene.