Sulle nostre pagine Bruno Gerolimetto ci ricorda il compleanno europeo. Cade in un momento di crisi acutissima dell’idea d’Europa e ricordarlo non ha solo un significato celebrativo ma anche e soprattutto politico. La questione dei migranti e dei profughi che bussano insistentemente alle porte ha fatto da detonatore, da capro espiatorio per un vento malefico antieuropeista che spirava gelido da molto prima; e anzi, a dirla tutta, non ha mai smesso di soffiare. In tutti questi lunghissimi cinquantanove anni ( tanti ne son passati dal Trattato di Roma, la prima cellula dell’Unione ) i processi unitari sono stati sopportati con indifferenza e distacco, in alcuni casi ( vedi l’Italia di vent’anni fa ) con un ingenuo entusiasmo di maniera, perché non toccavano in modo sostanziale e incisiva la sovranità nazionale. Persino l’euro è stato accolto benevolmente perché in fondo faceva comodo non doversi smazzare con i cambi ogni volta che si andava all’estero ( e del resto anche i ‘lasciapassare’ di Schengen venivano ben accolti anche per questa comodità ). Ma non dimentichiamoci però le prime lamentele, i primi malumori su chi approfittava dell’euro, raddoppiando i prezzi. E soprattutto non dimentichiamoci che c’era chi in Europa nell’euro non aveva voluto entrarci e non si trattava di uno staterello minore, ma della Gran Bretagna, hai detto niente. Soprattutto questo rifiuto doveva suonare da allarme. Ma in definitiva andava bene così. E’ un po’ come oggi si accolgono le nuove istituzioni metropolitane in Italia, con benevolenza e sufficienza cioè. Dovessero un giorno prendersi alla lettera e diventare la sovranità che conta, il vero governo cittadino di una vera città e di una comunità più ampia, assorbendo anche i ruoli e le competenze dei piccoli anacronistici comuni interni, scatterebbero i campanili e gli egoismi paesani.
Per l’Europa era un po’ così. Sembrava che si occupasse di cose marginali, le cinture di sicurezza in auto, evabbè, le norme sulle strutture igieniche nelle cucine dei ristoranti ( tavoli zincati, aerazione…), okkey; anche se, pur con eccessiva rigidità a volte ( spesso in realtà per adattarsi alle rigidità nazionali ), legiferava su un’infinità di cose altrettanto marginali; ma, sommate, un po’ meno marginali e ce ne accorgeremmo dovessimo mai arrivare ad un’unità più concreta quanto dovremmo alla sfilza di queste inezie. Quando però sono venuti al pettine veri i nodi dei veri problemi sovranazionali, le differenze economiche, l’uniformità dei controlli alle frontiere comuni o una politica comune verso chi preme dall’esterno, certa opinione pubblica ha gettato la maschera innescando i populismi di destra, di sinistra e soprattutto trasversali. L’Europa vuole un riordino economico e mette becco nelle politiche economiche nazionali ? Apriti cielo. Veniva interpretata e viene ancora interpretata come una follia la pretesa che un processo realmente unitario anche sul piano politico richieda una certa uniformità economica ( ma dai ?). Si rivolgeva, l’Europa, in specie al proprio sud che allegramente e in piena propria sovranità dei suoi Stati ha passato decenni a sperperare danaro pubblico tra parassitismi, rendite di posizione, corruzioni di ogni genere e mafie di ogni tipo, non solo quelle chiamate in modo esplicito con questo nome. E via, i populismi di questo sud a rinfacciare lobbies economiche, finanziarie e plutocratiche che manovrerebbero dietro questa pretesa folle.
Una delle più basilari virtù etiche, il rigore, diventava sinonimo di ingiustizia, un bell’esempio di ribaltamento dei valori.
Ora con profughi e migranti è la stessa cosa. Mettersi d’accordo e agire con un’azione unica e coordinata? Non se ne parla. Padroni a casa nostra, altro che. Fa piuttosto impressione vedere che alcuni stati, come Ungheria e Polonia, usciti da una segregazione geopolitica di decenni e che hanno fatto anticamera per entrare nella famiglia europea pensando forse ad una promozione di facciata, ora che si chiede loro di diventare adulti insieme e non solo di facciata, erigano per conto loro muri o, se non li erigono, facciano prevalere politiche di esclusione.
Le identità nazionali prevalgono quando fa comodo che prevalgano. E non solo le identità nazionali, le identità sono un cantiere senza fine. Non dimentichiamo per esempio il fallimento della scrittura della Costituzione Europea. Tra le altre cose in quel caso era scattato un sussulto d’orgoglio cattolico, un’identità sovranazionale che si pretende addirittura universale e sempre invece incline a far prevalere le ragioni di una Chiesa e di una religione su quelle di una libera istituzione laica che dovrebbe rappresentare tutti come il nuovo Ente continentale. Insomma riemergeva l’antistato anche a scala europea, nonostante la paternità europea di Alcide De Gasperi, cattolico, ma un po’ temuto a suo tempo nelle curie per questo suo eccessivo amore per le istituzioni pubbliche e civili. E nessuno può dimenticare la gazzarra suscitata dal mondo cattolico, soprattutto in Italia, con la pretesa di mettere per iscritto nel testo le radici cristiane dell’Europa; volendo così porre un bello steccato ideologico a un’Europa che si vorrebbe invece inclusiva e multietnica, soprattutto oggi e con il senno di poi dopo quello che sta succedendo ed è successo. Non se ne fece niente di quella Costituzione, fallita non certo solo per questo ma soprattutto per i referendum contrari nel 2005 delle popolazioni di Francia e Olanda; che tuttavia nella confusione di motivazioni e ragioni avevano potuto trarre linfa negativa anche dalle complicazioni e dai distinguo di quel dibattito tra sordi sulla cristianità europea, per mandare poi un segnale sinistro e premonitore di cui solo ora ( vedi il veto olandese all’Ucraina nella UE) si capiscono le conseguenze; appunto nel radicarsi nell’opinione pubblica in molti stati di veri sentimenti antieuropei, sempre che li si possa dire sentimenti.
Certo il referendum principe sarà quello di Giugno in Gran Bretagna che dovrà stabilire l’uscita o meno di quello stato dalla UE. E ci sarà da soffrire e da far politica internazionale preventiva come ha fatto, anche per supplenza ai silenzi e alle reticenze europee, uno che non dovrebbe entrarci e che anzi, secondo la logica nazionalistica del suo paese, avrebbe semmai tutto l’interesse al mantenimento di un’Europa divisa: vale a dire il Presidente americano Obama; e ci sarebbe solo da ringraziarlo perché vede lontano e oltre, anziché ironizzare, come è stato puntualmente fatto, sul suo intervento a favore del mantenimento britannico in Europa presso la Regina madre Elisabetta. Questo straordinario paese, La Gran Bretagna, non sa togliersi di dosso il suo vuoto orgoglio isolano, qualcosa che assomiglia, a scala molto più grande, alla nostrana venezianità isolana, per fortuna anche qui minoritaria e che conosciamo bene, nutrita di miti simili come l’impero, la grandezza sui mari, l’essere diversi, irriducibili e non omologabili.
Il risultato britannico di Giugno può segnare uno spartiacque in un senso o nell’altro. Noi, in apnea e con dita incrociate, attendiamo un segnale di speranza e di controtendenza, un bel NO. Attendono il segnale antieuropeo opposto al nostro tutti i partiti populistici, nazionalisti e antipolitici di vario segno, che sono in grande ripresa ovunque, ma confinati in un perimetro che per fortuna, anche se ormai a doppia e cifra, è comunque minoritario; ed è bene che resti a lungo tale. Intanto, utilizzando le più svariate frustrazioni sociali e tutte le identità che passano sottomano e che son sempre buone e pronte all’uso – da quella nazionale a quella di frazione o di quartiere fino a quella religiosa – si allenano fomentando egoismi di campanile e di borgata in casa propria, nella quale sottolineano un giorno si e l’altro pure di essere ‘paroni’. Nobile aspirazione. Ecco, se dobbiamo indicare un vero, concreto avversario per una sensibilità democratica che guarda ai grandi diritti civili, specie quelli già dichiarati universali, si prenda nota che esso sta di casa presso queste minacciose formazioni, i cui nomi in Italia conosciamo ormai bene. Ne prenda soprattutto nota una certa opinione di vetero sinistra e chi la rappresenta. La quale, anziché riconoscere questo populismo nazionalista antieuropeo come primo vero avversario in Italia e in Europa, da noi ha preso il vezzo di dirigere il bersaglio attuale solo sempre e soltanto verso il governo italiano e il suo premier ( sono gli aspiranti tirannicidi di cui parla Lorenzo Colovini nel suo ultimo pezzo); e a volte, ma molte volte, lo fanno facendo fronte unico con la canea populista, proprio quella che a noi sembrerebbe essere appunto il vero avversario ma che a loro non pare proprio. Il loro bersaglio è diretto verso chi, come il governo e il suo premier, sta conducendo una coraggiosa e difficile politica riformatrice ed è soprattutto deciso in un europeismo non certo solo di maniera.
L’altro giorno al Brennero se ne è avuta una prova. Matteo Renzi ha continuato a condannare incessantemente i muri come e dove ha potuto, ha alzato la voce contro quel minaccioso muro che sulle Alpi contro di noi avevano reale intenzione di erigere gli austriaci. I quali in quarantottore han cambiato idea e si sono ridotti a più miti consigli, buttando lì la scusa che c’era chi aveva capito male.
Forse la fermezza un tantino credibile del premier qualcosa deve aver prodotto nel ridurre la minaccia austriaca a un fraintendimento. O no?

Carlo Rubini (Venezia 1952) è stato docente di geografia a Venezia presso l’istituto superiore Algarotti fino al congedo nel 2016. Giornalista Pubblicista, iscritto all’albo regionale del Veneto e scrittore di saggi geografici, ambientali e di cultura del territorio, è Direttore Responsabile anche della rivista Trimestrale Esodo.