Ci sono dei commenti sulle cose della politica che per la loro ripetitività diventano come i fossili. E come i fossili restano impietriti. Hanno avuto una vita e, forse, un senso nel passato remoto; non hanno più vita e senso adesso, ma restano impressi e ancora vivi nelle menti poco predisposte all’analisi critica su ciò che accade nel mondo, ma anche dietro l’angolo di casa. Fossili per menti fossili.
Tra questi fossili c’è per esempio l’alone di considerazioni e di assunti che accompagna il tema del confronto-scontro politico democratico, a tutte le scale, dal locale, al nazionale, persino al planetario. In questo alone, costituito da non pochi luoghi comuni, un classico del commento, fatto con i toni della puntualizzazione competente, è che il confronto-scontro politico in democrazia si debba reggere sull’alternanza. Anzi, si dice, l’alternanza in politica è ‘il sale della democrazia’; oggi tocca a me, domani a te: ‘sono’ si dice ‘ gli elettori a decidere’. E’ questa la considerazione apparentemente ‘alta’ che si sente ripetere quando si affronta il tema della dialettica tra maggioranza e opposizione di minoranza, dal parlamento al consiglio comunale.
In omaggio a questo ‘sale della democrazia’ la maggioranza subentrante, una volta arrivata al potere nelle istituzioni legittimamente con il voto, ha, lo si dice e lo si fa, il sacrosanto diritto di cambiare tutto quello che di buono o di meno buono – atti, persone, organismi – ha fatto e deciso il fronte sconfitto, precedentemente al governo. Reduce dalla recente sconfitta, la nuova opposizione – altro ‘sale della democrazia’ nella pletora dei luoghi comuni – si propone all’istante di essere ‘costruttiva’, ma si smentisce subito dopo: dal paesino di montagna alla metropoli recita invece un continuo ripetitivo e prevedibile controcanto in cui, con uno schema mai aggiornato e che resiste nel tempo, si esercita a dire che tutto ciò che compie la maggioranza che governa fa sempre e comunque sostanzialmente schifo. D’altra parte la maggioranza inizia, dal primo giorno in cui si insedia, una palese e scoperta propaganda delle proprie buone azioni e quel che non va della situazione presente di solito lo addebita all’eredità del passato, quando l’attuale minoranza stava al potere ( in questo caso più di una volta dice anche il vero). Se nella minoranza c’è qualcuno che, con l’innocenza del bambino, si azzarda a dire che ‘forse quella delibera passata a maggioranza l’altra sera non era da buttare’ e, se nella maggioranza c’è qualcuno che concede qualche chance ad una critica dell’opposizione, questi sono visti con sospetto dai reciproci compagni di schieramento e finiscono accusati di collusione con il nemico e di propensione all’ ‘inciucio’ ( neologismo ormai noto che, coloritamente, ha sostituito l’ex neologismo ‘consociativismo’).
Qualche volta il tutto è accompagnato da genuino odio reciproco, ma non mancano i casi in cui si sente parlar bene, da parte di un esponente di maggioranza, del tale oppositore o viceversa ( ‘ ma sai che è proprio intelligente e preparato ’ arrivano a dire ), con il sottointeso che, nel copione che va recitato, lui ‘resta un avversario, sia ben chiaro’. Un tempo, nel lontano Novecento, ciò veniva comprensibilmente sancito da uno schema ideologico rigido in cui non a caso le voci dissonanti, quelle laiche, erano un esigua minoranza, schiacciate da chiese dogmatiche e autoritarie che avevano nella contrapposizione frontale la loro ragion d’essere. E’ tuttavia curioso che oggi, in un mondo senza ideologie e appartenenze rigide, lo schema resista e resista, come ho detto in apertura, non solo nella prassi ma anche nella ‘vulgata’ che lo commenta a diversi livelli.
Aggiungo un altro elemento. Nelle considerazioni che gli stessi propositori fanno, a cominciare dal premier Renzi stesso, circa la nuova legge elettorale italiana, il noto ‘Italicum’, che pure mi vede favorevole rispetto alla legge che c’era prima, si dice che essa garantirebbe una chiara alternanza (eccola là) e che la sera delle elezioni si saprà con certezza ‘chi ha vinto e chi ha perso’; alludendo, e facendo trapelare senso di responsabilità, che anche questo risultato di maggiore chiarezza nel conoscere il vincitore sarebbe un granello di ‘sale della democrazia’. Ci risiamo. La democrazia si regge dunque sulla competizione di confliggenti che, come in guerra, o vincono o perdono ? Questa sarebbe la chiarezza utile alla democrazia ? Si, perché il linguaggio resta questo.
Quando sento un coro, se canta bene con armonia, lo apprezzo e in quel coro ci canterei anch’io volentieri; ma quando sento un coro non di canzoni o melodie sonore ma di opinioni tutte sulla stessa lunghezza d’onda m’insospettisco non poco e cerco di non cantare in quel coro almeno per il tempo necessario ad operare le necessarie verifiche critiche, guardando la scena con distacco, pronto a ricredermi. E allora osservo.
Guardo e vedo che nelle nostre democrazie chi vince le elezioni nella stragrande maggioranza dei casi lo fa con percentuali che arrivano se va bene al 60% ( e questo per altro accade solo nei ballottaggi ), il che vuol dire che anche chi vince quando vince ha l’appoggio elettorale solo e sempre e ovunque di una minoranza degli aventi diritto, anche quando l’affluenza è alta e non parliamo poi di quando è bassa in cui la pseudo maggioranza numerica che sorregge il vincente è ancor più marcata nella sua minorità. Si dirà che ciò è normale ed è una regola del gioco. Certo, ma con questi numeri, tutto questo dovrebbe indurre i vincitori ad atteggiamenti meno trancianti e tracotanti nei confronti dei competitori perdenti, pur restando diversi e con diversi ruoli. Per esempio facendo propri anche argomenti interessanti dei cosiddetti sconfitti; argomenti interessanti che, soprattutto a livello locale, è impossibile non ci siano.
Ma guardo e vedo che, d’altra parte, gli sconfitti hanno subito un verdetto ancor più pesante, sono in doppia minoranza e qualche errore l’avranno pur commesso se gli elettori li hanno bocciati. Questo dovrebbe indurre i perdenti ad un bagno di umiltà, seguito da un atteggiamento pragmatico che valuta di volta in volta, cercando magari di dare una mano e aiutare a far si che chi governa scelga per il meglio, cercando il confronto e l’accordo in tutti i tavoli possibili. E invece no. L’opposizione fa il sistematico inutile e irritante controcanto a prescindere e, come si dice, ‘gufa’. E’ paradossale ma è così. Incurante del fatto che la comunità di riferimento, sia nazionale o comunale fa lo stesso, è un insieme sociale con interessi, disagi, obiettivi che dovrebbero essere comuni ( se no che comunità è?), l’opposizione si augura che la sorte della comunità vada sempre peggio perché solo così si creano le condizioni per la famosa alternanza alla prossima scadenza elettorale. Calcolo miope oltre che moralmente ‘basso’, dal momento che, se va sempre peggio, poi, quando mai l’opposizione dovesse andare al governo, farà una fatica bestia a tirar fuori una situazione migliore per la succitata comunità.
Guardo, rifletto e mi chiedo. Ma ci sono veramente due modi opposti, in una città da amministrare, per risanare una periferia urbana? O di organizzare una raccolta differenziata nei rifiuti urbani? O di promuovere la cultura ? O di organizzare una mobilità efficiente salvaguardando la salute e l’aria che si respira ? Di solito la spia che gli obiettivi in una comunità e in chi la rappresenta sono solo quelli e non altri la si ha quando si leggono i programmi elettorali, soprattutto in occasione delle lezioni amministrative locali. La critica più in voga, anche questo è un coro, è che ‘ i programmi elettorali sono tutti uguali ’. Non è per caso che sono tutti uguali perché i candidati, magari senza neppure accorgersene, hanno forse avuto un sprazzo, un barlume di onestà con i cittadini e hanno indicato i problemi per quel che sono e i rimedi per quel che dovrebbero essere? E non sono inevitabilmente uguali perché i rimedi e le soluzioni non hanno alternative e quelle sono, sia che lo dica il candidato A sia che lo dica il candidato B ? E non sarebbe meglio trovare il modo, sia dalla posizione di responsabilità di governo sia standone al di fuori, di lavorare tutti insieme per risolverli ?
Termino riportando allora alcune parole di Matteo Richetti, uomo di spicco del Partito Democratico nazionale, che forse ha fatto riflessioni non troppo dissimili dalle mie. Sono tratte dal suo libro che in questa stessa pagina di LUMINOSI GIORNI recensisce Davide Meggiato, e che s’intitola “ Harambee” ( sul significato del termine vedi nota sotto l’articolo):
“ spesso in questa stagione politica in cui le cronache dei giornali raccontano solo di divisioni, ho invocato l’Harambee. Perché tu puoi rimanere diverso, con i tuoi distinguo, ma le tue braccia servono per spingere insieme agli altri “
Nota Riporto dalla copertina del libro di Ric hetti: “ Nel Kenya dei villaggi, quello con le strade in terra battuta, può capitare che l’autobus si impantani e che l’autista faccia scendere tutti per spingere al ritmo scandito di “ Harrambee! “, un incitamento corrispondente al nostro “ Oh issa! “.

Carlo Rubini (Venezia 1952) è stato docente di geografia a Venezia presso l’istituto superiore Algarotti fino al congedo nel 2016. Giornalista Pubblicista, iscritto all’albo regionale del Veneto e scrittore di saggi geografici, ambientali e di cultura del territorio, è Direttore Responsabile anche della rivista Trimestrale Esodo.