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C’è una parte di opinione pubblica, silenziosa e disarmata, che non è antipolitica ma che non ne può più della politica urlata, della demonizzazione dell’avversario, del muro contro muro delle dichiarazioni ufficiali, e non parliamo di quelle non ufficiali, del disprezzo per l’opinione altrui, della dichiarata non volontà di mettersi insieme e di collaborare per il bene comune, della colpevolizzazione per ogni presunto danno ricevuto, spacciando per danno generale o di categoria un danno individuale e di bottega propria. Lo ripeto. Questo non poterne più non è l’antipolitica. L’antipolitica strumentalizza la disonestà di alcuni per trasferirla su tutti coloro che fanno politica e sui loro partiti. Fa di ogni erba un fascio. Emette sentenze senza processo. Basta scorrere i post in Face Book e il cosiddetto dibattito, meglio si dovrebbe dire la ‘canea’ abbaiante, ringhiosa e livida che ne segue. Ogni post è una sentenza di condanna alla sedia elettrica, emessa da chi scrive che è tribunale, giudice e boia nello stesso tempo e nella stessa persona. Questa è l’antipolitica. Che è invece, a dispetto del suffisso ‘anti’, la politicissima strada che porta direttamente ai roghi; di persone e dei loro pensieri orali, scritti, trasmessi. Chi non ne può più non ne può più soprattutto di questa antipolitica. E i media soprattutto televisivi ci mettono del loro per fomentarla, fanno i provocatori, non spengono l’incendio come dovrebbero e potrebbero, ma buttano continuamente benzina sul fuoco.

Campeggiano in bella evidenza nella home page  di LUMINOSI GIORNI quattro articoli pubblicati nelle ultime due settimane, che, per quanto contestualizzati in modo diverso, vertono più o meno tutti sullo stato agonizzante del dibattito politico basato sulle storture e sulle degenerazioni sopra riportate e della sua applicazione nella prassi quotidiana a tutte le scale dalla planetaria alla locale. Con Vianello Moro si parla di eccesso di democrazia, democraticismo più che democrazia quindi, che uccide la democrazia; con Meggiato del vezzo un po’ demagogico e un po’ populista di usare la ‘gente’ per invocare cambiamenti di rotta mai ben identificati; con Federico Moro della comoda e facile protesta del diniego ( del NO a tutto cioè) di ogni soluzione proposta dal presunto avversario senza mai indicare un’alternativa ( recentemente un personaggio come Beppe Grillo si è detto orgoglioso alfiere di questo NO per sempre e per tutto); con Giulio Giuliani del moralistico usare solo l’onestà come parametro per scegliere chi deve governare senza mai ricordarsi invece della competenza e della capacità di collaborare sinergicamente con tutta la comunità di riferimento.

Sono tutti interventi di qualità che dovrebbero servirci come bussola nell’orientarci quando con certosina pazienza cerchiamo di mettere in piedi una proposta politica a partire dal modo con cui la si porge e dal coinvolgimento che intendiamo mettere in atto. Non mi stancherò mai di invocare quella condizione ottimale per cui si supera la conflittualità permanente nella politica fornendo programmi intesi a raggiungere obiettivi condivisi. E gli obiettivi da raggiungere sono l’applicazione contingente di valori civili già scritti e prefigurati nei patti di cittadinanza. I patti sono già frutto di mediazioni e di accordi a cui tutti dovrebbero attenersi. Possono sembrare un ‘pensiero unico’, senza alternativa, che sommerge e annulla una necessaria dialettica in politica e questa è l’obiezione più consueta e astutamente ipocrita. Ma non è così. In politica ci si dovrebbe dividere e confrontarsi sulle persone e nel cercare e selezionare quella tra queste più idonea e capace a mettere in atto obiettivi comuni a tutti, questi si non negoziabili. Mi allungo a dire che ci si può anche dividere sulle strategie e sui percorsi, e solo fino a un certo punto, ma non su ciò che si vuole perseguire se si hanno bene impressi nella mente quali sono gli interessi generali di una comunità.

Vorremmo allora su queste pagine sostenere e rappresentare chi senza clamori costruisce e cerca di tessere una nuova tela di relazioni per spezzare questa spirale violenta che può portarci al collasso e all’impossibilità definitiva di agire pubblicamente e di governare la complessità.