C’era bisogno del giorno della fertilità per ricordare alle donne d’Italia che occorre fare più figli. Era ora che il ministero della salute prendesse coscienza di un problema, quello della denatalità, e mettesse in atto una strategia volta a rimuoverlo in quattro e quattr’otto. Complimenti. Efficace strategia, ottime argomentazioni, nobile fine. Sarà un problema tutto mio l’essere dissacrante e il non voler vedere, per lo meno, le buone intenzioni di chi ha indetto questa campagna, ma trovo l’uscita del ministro Lorenzin un’offesa a tante donne che hanno, purtroppo per loro, ben altre priorità. È come se a dei senzatetto venissero offerti corsi di arredamento e di decoupage gratuiti. Con la differenza che il ministero della salute non offre proprio niente. Ricorda, semplicemente ricorda alle donne, ma forse anche ai loro compagni, che la fertilità è un bene a termine. E che va sfruttato e ottimizzato finché si è in tempo. Per creare cittadini, per garantire una popolazione sempre fresca e scoppiettante, per dare figli a uno Stato che ha molto a cuore i problemi delle giovani generazioni.
Non c’è che dire: mi ha proprio spiazzato questo “fertiliy day”. Tanto che mi son detta: ” Vuoi mettere che i maschi italiani, notoriamente grandi amatori, hanno scoperto di non avere più tutto quel testosterone che tante leggende metropolitane da sempre hanno loro attribuito? Forse che gli stessi maschi, stressati dai ritmi della globalizzazione, non guardano più con concupiscenza tante femmine in età fertile e hanno spostato su altri oggetti del desiderio (smartphone, tablet e diavolerie simili) la propria libido? Insomma, non ci s’impegna più per la procreazione o si è esagerato in contraccettivi, in obiettivi lavorativi e in ambizioni da donne in carriera?”. Mi stupirei se fossero queste le istanze che hanno spinto il governo a proclamare la giornata della fertilità. Ma tant’è. Io ancora non me ne spiego la ratio.
Che dire, poi, dello scivolone macroscopico dell’ultima ora? Per dare maggiore credibilità all’iniziativa, è stato diffuso dal ministero della salute, un manifesto in cui vengono presentate due realtà. Nella prima, giovani biondi, belli, sani e ariani, sereni e gaudenti, sono l’emblema della salute e della fertilità: di sicuro avranno famiglie felici e numerose. Nella seconda, volti sconvolti, di diversa etnia, per lo più neri, con spinelli alla mano e tenori di vita evidentemente dissoluti incarnano la sterilità e l’assenza di futuro.
Non credo che la scarsità di prole nelle patrie famiglie dipenda da una scarsa attenzione delle donne, e delle coppie in generale, ai temi della salute. Né penso che le italiane, all’improvviso abbiano deciso che i figli non sono più “piezz’e core”. Non credo neppure che le donne in età fertile considerino i figli un intralcio, un freno, un impedimento alla loro realizzazione. Costituiscono, semplicemente, un lusso che molte non si possono permettere. I figli, ormai, chissà perché, sono patrimonio delle famiglie benestanti. Lo stesso termine “proletariato” non si attaglia più – mi si perdoni il termine obsoleto – alla classe operaia. La prole numerosa, ormai, è cosa per ricchi. Ci siamo chiesti dove pascono e si moltiplicano le famiglie numerose? È presto detto: presso quei ceti che possono opporre all’assenza di strutture assistenziali tanta bella moneta sonante.
Che le donne facciano pochi figli, in Italia, per la preoccupante latitanza dello stato sociale è invece evidente. I costi degli asili nido (quando ci sono), l’insufficiente tutela della maternità, i risibili investimenti da parte dello Stato nella scuola e nell’istruzione, la colpevole incuria delle Istituzioni in tema di occupazione bastano da soli a spiegare il calo delle nascite nel nostro Paese. Ma sono temi che conosciamo e che conosce anche chi all’improvviso è preoccupato di vedere per strada poche donne col pancione. Meno fertility day, allora, e più leggi che vietino di chiedere a una neo assunta se ha intenzione di far figli; meno campagne sulla fecondità e retribuzioni più dignitose alle donne; meno cartoline sulla bellezza di essere madri e padri e più attenzione ai congedi di maternità; meno slogan infarciti di luoghi comuni e di razzismo e maggiore consapevolezza dei problemi della gente. Insomma, c’è un limite a tutto. Se la bellezza non ha età e la fertilità ha invece un termine, il buon gusto non passa mai di moda.
Annalisa Martino

Laureata in filosofia, ha insegnato Lettere in una scuola secondaria statale in provincia di Milano. Scrive su alcune testate locali dove si occupa di scuola, libri, politica e costume. Ha pubblicato tre romanzi: “Criada” (Astragalo, 2013), “A due voci” (Leonida, 2017), “Fatale privilegio” (ilTestoEditor, 2023)