Il 7 novembre 1866 il fresco re d’Italia, Vittorio Emanuele II, fa il suo ingresso trionfale a Venezia. Finisce così la Terza Guerra d’Indipendenza, Veneto, Mantova e Friuli sono uniti all’Italia. A Francesco Giuseppe d’Asburgo degli antichi possedimenti nella Penisola restano solo Trentino e Venezia Giulia. Li perderà entrambi con la Grande Guerra e quindi nel 1918.
L’anniversario, il 150°, dell’unione del Veneto all’Italia è sostanzialmente passato sotto silenzio. Ne hanno parlato, poco per la verità, più che altro quanti contestano il Plebiscito che accompagnò il trattato di pace con la cessione: la quale, comunque, avvenne prima alla Francia e in seconda battuta all’Italia.
Sulla Terza Guerra d’Indipendenza circolano oggi i racconti più fantasiosi e si sprecano le leggende. Contribuiscono con grande energia ad alimentarle quanti aspirano alla separazione del Veneto dall’Italia. La Regione porta la sua parte di responsabilità, avendo finanziato la distribuzione di un libretto sulla battaglia di Lissa, che si segnala per la notevole quantità d’invenzioni.
Mi sembra opportuno, quindi, cercare di riportare un po’ di chiarezza storica in materia. Comincerò dalla fine, cioè dal Plebiscito. Fu truccato? Senz’altro. Come tutti i plebisciti. Si trattò di una manovra propagandistica per dare giustificazione a un “trasferimento” di popolazione e territori altrimenti frutto solo della strategia. Un secolo prima nessuno ci avrebbe pensato, nel 1866 il pensiero liberale esigeva questo tributo alla democrazia formale e al diritto dei popoli.
Non entrerò, quindi, nella polemica sui brogli: è chiaro come il sole che la consultazione fu solo di facciata. Potrei chiudere il discorso con una frase del tipo “è la geopolitica, bellezza”. La quale, è noto, si basa su volontà, abilità e forza. Il diritto non c’entra. Nulla.
Il Plebiscito, dunque, lo lasciamo perdere. Affrontiamo, allora, le leggende. Le maggiori riguardano il presunto schierarsi dei veneti, intesi come singoli mossi da un sentimento di massa condiviso, a fianco degli austriaci e contro gli “italiani”. Alfiere di questo schieramento l’aureo libretto citato sopra, che racconta della battaglia navale di Lissa come dell’ultima vittoria della flotta di San Marco. A Custoza, poi, i fanti e gli ulani veneti avrebbero travolto i codardi “italiani” e ottenuto per l’amato imperatore un grande e determinante successo. Si tratta di due semplici falsi.
Cominciamo dal primo. Tutto nasce dal fatto che uno dei timonieri dell’ammiraglia austriaca, Vincenzo Vianello detto Gratòn, era di Pellestrina, quindi veneto, come altri marinai imbarcati sulle navi imperiali. In particolare Tomaso Penso di Chioggia, un secondo decorato “austriaco” della battaglia.
In molti riportano che il comandante imperiale si sia rivolto a Vianello in veneto e, addirittura, lo abbia incitato nel momento culminante dello scontro gridando “…daghe doso, Nino, che la ciapemo!”. Al punto che quando l’ammiraglia italiana Re d’Italia affonda, i marinai esulterebbero gettando in aria i berretti urlando “viva San Marco!” Dispiace che anche autori stimati riportino queste divertenti invenzioni, alimentate da una spirale perversa fatta di mancato controllo delle fonti e banale verifica cronologica.
La tanto evocata Oesterreich-Venezianische Marine (Imperiale e Regia Veneta Marina) cessa di esistere con la Prima Guerra d’Indipendenza e la rivoluzione guidata da Daniele Manin e Nicolò Tommaseo. Se già la defezione di Attilio ed Emilio Bandiera, figli del comandante di quella Marina, e di Domenico Moro fucilati a Rovito in Calabria nel 1844 aveva messo in allarme le autorità austriache, dopo il 1849 non ci sarà più spazio per gli ufficiali e la lingua veneta sulle navi imperiali. Le quali, ricordo di passaggio, sono le protagoniste assolute dell’assedio a Venezia: senza la flotta, schierata con l’Impero e contro la città, questo nemmeno sarebbe iniziato.
A Lissa, dunque, combatte l’Österreichische Kriegsmarine (Marina da guerra austriaca) che diventerà un anno dopo Kaiserliche und Königliche Kriegsmarine (Imperiale e Regia Marina da Guerra), in ungherese Császári és Királyi Haditengerészet… cosa c’entra l’ungherese?
Moltissimo, perché i nostri simpatici propagandisti forse non sanno che il regno di Croazia e Slavonia nell’Impero era parte dell’Ungheria, Terre della Corona di Santo Stefano o Transleitana, con il suo porto principale, Fiume. Capitale Budapest, lingue ufficiali, ungherese e tedesco, moneta il florint, fino al 1892. Nella Cisleitania, capitale Vienna, moneta la corona austriaca, rientravano invece tra gli altri il Litorale austriaco, le contee di Gorizia e Gradisca e la città di Trieste con il margraviato d’Istria. Lingua? Il tedesco.
Non solo. Il tedesco è la sola lingua delle forze armate dell’Impero. Esercito e pure Marina. In questa, in modo particolare, anche per l’estrazione della maggior parte del corpo ufficiali. È vero che il comandante della flotta a Lissa, Wilhelm von Tegetthoff, da ragazzo ha studiato a Venezia al pari degli altri ed è più che probabile sappia esprimersi in veneto, ma questo non significa lo faccia abitualmente e men che meno la lingua di bordo sia il veneto. Avrebbe forse parlato veneto anche durante la Guerra dei Ducati, in Danimarca nel 1864? Perché Tegetthoff guida le stesse navi e i medesimi marinai nel Mare del Nord due anni prima. Ammettiamolo, può essere che abbia usato il veneto colloquiando con Vincenzo “Nino” Vianello, ma tutto finisce qui.
La prevalenza di elementi veneti e giuliani a bordo delle navi imperiali è un ricordo degli anni Trenta dell’Ottocento, già nel 1848 la maggior parte di loro è di etnia slava e ungherese: in quell’anno ancora solo gli ufficiali sono per lo più veneti ma, come noto, nel momento decisivo si schierano con l’Impero e contro la loro “capitale”, Venezia, in rivolta.
Lissa fu una dura sconfitta per la giovane Marina italiana, ma inflitta dalla Österreichische Kriegsmarine, formata da austriaci, slavi, ungheresi e qualche veneto e giuliano. Proprio per questo e a prescindere che sarebbe stato impensabile esultare con “viva San Marco!” grido di battaglia del nemico sconfitto del 1848-49 e quindi come tale sovversivo, parlare di “vittoria veneta” a Lissa appartiene alla categoria degli scherzi. Ah, quasi dimenticavo: non esiste alcuna prova, documentale e/o testimoniale, del “viva San Marco!” Il che mi pare chiuda la questione.
Veniamo a Custoza. Battaglia sicuramente negativa per il Regio Esercito ma dagli effetti ingigantiti e strategicamente irrilevanti. In realtà, l’arciduca Alberto riesce a concentrare la sua intera forza contro i soli I e III corpo italiani: 70.000 uomini contro 50.000. Lasciamo parlare lo stesso arciduca:
«Non si può negare all’avversario la testimonianza d’essersi battuto con tenacia e valore. I suoi primi attacchi specialmente erano vigorosi, e gli ufficiali, lanciandosi avanti, davano l’esempio.»
(Alberto d’Asburgo-Teschen, Dal rapporto ufficiale della battaglia di Custoza del 24 giugno 1866)
Perdite: italiani 714 morti e 2.576 feriti; austriaci 1.170 morti e 3.984 feriti. Dispersi e prigionieri italiani 4.101, austriaci 2.802.
Le cifre indicano uno scontro in realtà non di grandi dimensioni e comunque concluso con una semplice ritirata oltre Mincio per gli italiani. Gli austriaci, incapaci di avanzare, rinunciano all’inseguimento. Cioè il contrario di quanto fanno Garibaldi e Medici in Trentino, dove la loro tenaglia stritola il generale austriaco Franz Kuhn von Kuhnenfeld, che sta per abbandonare Trento prima che l’armistizio di Cormòns fermi tutto. Tanto per dire, gli italiani arrivano a Levico e Civezzano: consiglio di guardare una carta geografica.
Quello stesso armistizio arresta l’armata di Enrico Cialdini a Versa, frazione di Romans d’Isonzo (Gorizia), mentre Alfonso La Marmora blocca le residue forze austriache dentro il Quadrilatero, cioè essenzialmente tra Verona e Legnago.
Custoza decisiva? Neanche un po’, per terra gli austriaci sono stati travolti e hanno perduto sia il Veneto che il Friuli e pure buona parte del Trentino. Lissa? Di certo una sconfitta ma che ha impedito di aggiungere al bottino di guerra la Dalmazia e l’Istria. Trieste sarebbe caduta presto.
Al tavolo della pace, l’Italia ottiene quanto ha conquistato, con lo scambio Trento contro Verona. Nulla le viene regalato. Da nessuno. A chiedere la pace è l’Austria per cercare di concentrarsi su un nemico solo, la Prussia. E comunque avvia trattative anche con la Prussia, e prima di quelle con l’Italia, al solo fine di non dover combattere una guerra su due fronti che non si può permettere.
Successo italiano dovuto alla vittoria prussiana di Sadowa o Königräz? Sciocchezza solenne. Ecco, invece, dove hanno combattuto e sono morti in tanti i soldati veneti dell’imperatore. Non erano a Custoza, come si dice e si ripete sbagliando, ma in Boemia. Sono stati massacrati dai fucili ad ago prussiani e lì sono caduti invano, visto com’è andata a finire. Come mai in Boemia?
Sarà una prassi che l’Austria, sulla scorta di una lunghissima tradizione, manterrà fino alla fine: italiani nei paesi slavi, slavi e ungheresi in quelli italiani…
A proposito, agli ammiratori e nostalgici degli Asburgo vorrei anche ricordare che l’avvio della politica antiitaliana in Istria, a Fiume e in Dalmazia, che porterà alla tragedia dell’Esodo nel secondo dopoguerra, lo si deve al mite e gentile Francesco Giuseppe d’Asburgo. È, infatti, nella seconda metà dell’Ottocento che lungo il Litorale e nelle Terre della Corona di Santo Stefano, più nel primo che nelle seconde, inizia una sistematica persecuzione dell’elemento etnico italiano. Si comincia con il Consiglio della Corona del 12 novembre 1866. Il verbale recita testualmente:
«Sua Maestà ha espresso il preciso ordine che si agisca in modo deciso contro l’influenza degli elementi italiani ancora presenti in alcune regioni della Corona e, occupando opportunamente i posti degli impiegati pubblici, giudiziari, dei maestri come pure con l’influenza della stampa, si operi nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori a seconda delle circostanze, con energia e senza riguardo alcuno».
Niente di nuovo, comunque perché il feldmaresciallo Radetzky aveva sostenuto in precedenza che
«Bisogna slavizzare la Dalmazia per toglierla alla pericolosa signoria intellettuale di Venezia alla quale le popolazioni italiane si rivolgono con eccessiva ammirazione»
Radetzky non aveva parlato invano. I dalmati italiani diminuirono sia in assoluto che in percentuale, come provano le statistiche ufficiali austriache.
Riassumendo: nel 1845 una stima calcolava gli italiani al 19,7% della popolazione dalmata; nel 1865 il censimento asburgico registrava 55.020 italiani, pari al 12,5% degli abitanti; nel 1910 un nuovo censimento ne contava 18.028, pari al 2,7% dei dalmati. Dal 1845 al 1910 gli italiani di Dalmazia si ridussero quindi dal 19,7% al 2,7% della popolazione totale.
La snazionalizzazione degli italiani di Dalmazia avvenne sotto l’azione congiunta dello stato imperiale e dei nazionalisti croati locali.
Mi fermo qua per ragioni di spazio ma ci tornerò perché lo stesso discorso può essere fatto per gli italiani della Venezia Giulia e del Trentino. Italiani o “veneti”, naturalmente, perché in realtà delle stesse persone, della medesima lingua e cultura si tratta. Con buona pace degli ammiratori del mito asburgico e dell’”Austria era un paese ordinato”.
Tutto quanto accade, dunque, a partire da poco meno di un secolo prima che la Jugoslavia di Tito si scateni contro l’elemento italiano residuo nella Venezia Giulia, a Fiume e in Dalmazia. Aveva avuto nell’Austria asburgica un formidabile insegnante. La superficialità resta la principale nemica della storia.
Se non ci fosse stato il 1866, probabilmente oggi parleremo tedesco. Oppure sloveno o croato. Meglio l’italiano, direi, anche se non è veneto, non credete cari amici separatisti?

Federico Moro vive e lavora a Venezia. Di formazione classica e storica, intervalla ricerca e scrittura letteraria, saggistica, teatrale. È membro dell’Associazione Italiana Cultura Classica e della Società Italiana di Storia Militare.
Ha pubblicato saggi, romanzi, racconti, poesie e testi teatrali.