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Provo a iniziare dal mondo, come si faceva ai vecchi tempi. Il cigno nero si è manifestato. Brexit, Trump e, ora, il no al referendum costituzionale, mostrano un segno evidente e univoco. E’ la crisi della democrazia; di quella per capirci, uscita dalla rivoluzione francese del 1789.

I sintomi erano evidenti da molto tempo. Il crollo dei sistemi dispotici dell’est, come ebbe a dire Bobbio, hanno lasciato per intero sul terreno, aperte, le questioni che si erano proposti di affrontare (uguaglianza sostanziale) e chi aveva inneggiato al rapido trionfo della democrazia nel mondo, sbagliava di grosso. Nella stessa direzione può essere letto l’esaurimento dei “trenta gloriosi”, con cui la socialdemocrazia aveva provato a rispondere allo stesso problema; pensare di riavviare quel meccanismo, senza profonde innovazioni (Corbin, Bersani), è destinato al fallimento. Infine, la stessa risposta liberista (Thatcher e Reagan), che ha puntato sulla liberazione di spiriti animali, al fine di accrescere la torta da spartire, con beneficio generale, ha mostrato la corda, travolta dalle bolle finanziarie create dalla deregolamentazione selvaggia. Paradigmi infranti. Intendiamoci, le discontinuità (negative in questo caso) rendono meglio l’evidenza dei processi, ma lo stesso ragionamento sarebbe stato possibile (e fondato) nel caso opposto, anche se la terna nera non si fosse materializzata. Una vittoria di misura del Remain non avrebbe certo esorcizzato la crisi strutturale che sta attraversando l’Europa, tra populismi fascistoidi (Le Pen), rigurgiti xenofobi (Orban) e ottusi ordoliberalismi (Buba). L’elezione di Van Der Bellen ci ha dato qualche ora di speranza, prima della grande botta, ma il fatto che l’avversario favorito (che ha ottenuto notevoli consensi), fosse un proto-nazista, non avrebbe dovuto, in alcun modo, sollevarci. Così Trump che, seppure avesse perso di misura, avrebbe comunque mostrato un forte logoramento del sistema istituzionale americano. E, infine, il Referendum. La vittoria di un punto, o una sconfitta di misura, non avrebbe di certo fatto scomparire gli enormi problemi che ostacolano la modernizzazione dell’Italia.

Certo, avremmo festeggiato; l’ottimismo della nostra volontà avrebbe avuto motivi di gratificazione. Non è stato così. Cerchiamo almeno di fare tesoro della sconfitta, di lavorare con il pessimismo dell’intelligenza.

La globalizzazione corre veloce, con effetti ambivalenti. Positivi per certi versi; crescono i ceti medi; si riduce la fame nel mondo; si diffondono le tecnologie, con ricadute forti sulla vita quotidiana di milioni di persone. Le stesse guerre, devastanti e vicine, sono meno pervasive e, (per chi non ci sta in mezzo), potenzialmente meno distruttive, per il mondo, rispetto a ciò che era in piedi prima dell’ottantanove.

Gli aspetti negativi sono altrettanto evidenti. La disuguaglianza cresce a dismisura, soprattutto in occidente, e crea disagio sociale, esclusione, impoverimento (una delle ragioni della sconfitta al referendum). Il progresso tecnologico distrugge lavoro. Cresce il lavoro morto incorporato in quello vivo. Il saldo tra nuovi posti prodotti nei servizi avanzati non colma quelli distrutti nei settori maturi (come, da ultimo, il negozio di Amazon, senza cassa, in cui entri, prendi quello che ti serve, ed esci, mentre un sistema di sensori addebita automaticamente sul tuo conto corrente lo scontrino virtuale). I meccanismi della democrazia rappresentativa stentano, pressati dalla velocità della circolazione delle decisioni da assumere, dalla crisi verticale dei sistemi di formazione e trasmissione del consenso, dal corto circuito dell’informazione istantanea. I corpi elettorali non riescono a eleggere assemblee rappresentative in grado di formare governi (Belgio, Spagna), indipendentemente dai sistemi elettorali utilizzati.

I critici della democrazia aumentano. Si sviluppano le tecnocrazie senza legittimazione democratica (ahimè, anche nella nostra Europa) e gli autocrati populisti (Putin, Erdoan). In proposito si potrebbero ricordare anche le affermazioni di Berlusconi (oggi proporzionalista), sul populismo e sul rapporto, da sviluppare senza mediazioni, con il popolo elettore. Per non parlare dei cinesi che orami apertamente, raccogliendo consensi anche in occidente, sostengono l’obsolescenza dei sistemi rappresentativi sviluppatisi dalla rivoluzione francese in avanti.

Le risposte a questa deriva restano chiare. La pianificazione centralizzata non è compatibile con lo sviluppo di una società complessa, basata su servizi avanzati. E la cancellazione di un sistema di legittimazione democratica travolge fatalmente anche le libertà fondamentali. Ma tutto ciò non è sufficiente. L’emarginazione, reale e percepita, produce pulsioni semplificatrici, identitarie, sulle quali soffiano apprendisti stregoni di ogni risma (questo spiega anche alcune accentuazioni della campagna referendaria (i costi della politica), che non hanno peraltro prodotto i risultati sperati. Le banche sono indicate come un nemico (salvo poi scegliere tra due CFO di banche d’affari il sottosegretario al tesoro USA), gli autocrati sono blanditi perché trattengono i migranti, l’Euro è considerato la causa d’impoverimento generale.

Per risalire la china è necessaria maggiore integrazione europea, fondata su crescita (flessibilità per investimenti) e solidarietà (migranti); più sinistra, per cercare nuovi paradigmi con cui rispondere alle difficoltà richiamate; più governabilità, per dare risposte efficaci e veloci (riforma costituzionale).

Sono le direttrici sulle quali, con imperfezioni, si è mosso il progetto politico di Renzi (per come l’ho interpretato). Riduzione della pressione fiscale, non per scelta ideologica, ma solo perché divenuta ostacolo allo sviluppo (Renzi in direzione ha detto che, se fossimo stati il PD americano, avremmo sostenuto una linea opposta) e aumento dei diritti (oltre alle unioni civili, molti altri provvedimenti sono stati approvati in questa direzione). A questo si è aggiunto il tentativo spasmodico di imprimere uno stimolo alla crescita, che passa per una ridefinizione delle politiche europee e per la semplificazione del paese.

Sul primo aspetto l’azione, è stata molto incisiva, esemplare direi, date le condizioni di partenza, e rischia di essere compromessa da questa battuta di arresto, dagli importanti appuntamenti internazionali previsti per il 2017 (sessantesimo dei trattati a Roma e G7 a Taormina). Sul secondo, nonostante le ottime riforme della scuola e del mercato del lavoro, è stata più confusa, soprattutto nella riforma della macchina ammnistrativa (pubblica amministrazione). Le attenuanti ci sono perché si tratta del vero nodo gordiano da tagliare per aumentare la produttività fattoriale del paese. Le burocrazie, incolori e barocche, adatte per ogni stagione, stanno brindando (pensate a coloro che si apprestano a definire il prossimo programma di attività del CNEL). Potranno prolungare ancora il proprio immobilismo, rafforzare il radicamento sulla cultura dell’adempimento, a scapito del risultato. Sui giovani, si è detto, è stato fatto poco, e da questo deriverebbe la massiccia adesione (80 per cento), al fronte del NO. In parte credo sia fisiologico. Diceva Nenni che se a venti anni non sei anarchico, difficilmente a sessanta riesci a essere socialdemocratico. La dimensione eccessiva si spiega forse con l’insufficiente trasformazione (anche generazionale) del PD nei territori. Mentre a livello nazionale la discontinuità è stata forte (anche se giovane non sempre significa migliore), nei territori continuano a dominare i maschi anziani (coadiuvati spesso da giovani vecchi). C’è molto lavoro da fare in questa direzione, anche sul fronte delle politiche (reddito d’inserimento, partite IVA), e non sarà più semplice di ieri.

La vittoria del NO produce una battuta d’arresto, senza che si profilino alternative degne d’attenzione. Per questo, senza una mossa del cavallo, di cui non s’intravedono contorni definiti, il rischio è quello un riflusso di lunga durata, che sconsiglierebbe un’azione di movimento. Resta da definire, se la rivoluzione passiva non diventerà l’elemento prevalente, come regolare l’azione politica progressiva in una situazione in cui permangono, sanzionati dal voto popolare, il bicameralismo paritario (unico in Europa) e un rapporto squilibrato tra stato e regioni (competenza concorrente). Si tratta di due ostacoli, che continueranno a pesare sulle nostre spalle, come pure la mancata riforma del decreto-legge e del voto a data certa, essenziali per realizzare l’indirizzo politico in una democrazia governante.

A posteriori alcuni errori della campagna referendaria appaiono evidenti e, con il senno di poi, è molto facile ergersi ad arbitri e censori. Prevedo, nei prossimi mesi, l’intensificazione di questa pratica, pelosa e inconcludente, che porterà a riposizionamenti e tattiche strumentali. Non credo ci si debba impelagare in questo dibattito.

Una prima riflessione porta a porre l’accento su alcuni aspetti critici.

La polarizzazione anzitutto, cioè la richiesta di referendum, che sarebbe dovuta essere lasciata alle opposizioni e, nel caso, respinta come reazione. La scelta della legittimazione referendaria ha trasformato l’appuntamento in un plebiscito, oscurato il merito e coalizzato le opposizioni.

Il disagio sociale, forte in molte aree del paese, che ha caricato la spinta oppositiva di elementi ultronei; La reazione delle regioni autonome (Sardegna), al pericolo potenziale di una futura, e peraltro auspicabile, riconsiderazione della loro specialità (l’ordine del giorno Ranucci-Morassut).

La frattura del PD, che ha visto la minoranza cavalcare l’ultima possibilità per evitare l’emarginazione cui da sola si era condannata con le sue scelte fallimentari (elezione di Prodi presidente).

Che cosa accadrà ora? C’è un piano politico-istituzionale che sarà, probabilmente, molto di movimento (soluzione della crisi di governo, adeguamento delle leggi elettorali, elezioni politiche). Se si definirà con il voto in tempi brevi (giugno) resta aperta la possibilità di un’azione politica militante. Nel caso si dovesse trasformare in una guerra di posizione (con l’evidente tentativo di logorare il progetto politico espresso da Renzi), gli spazi di azione sono destinati a chiudersi per una lunga stagione. Il cigno nero si consoliderà e lo scivolamento verso nuovi scenari (Grillo, Salvini) sarà inevitabile.

C’è poi un piano politico, connesso al precedente, che riguarda più specificamente il centrosinistra e il PD.  Non credo che, dopo quanto è successo, sia possibile continuare a stare tutti insieme. La solidarietà tra estranei potrà, credo, essere meglio realizzata con un raggruppamento come quello indicato da Pisapia (non a caso esplicitamente citato da Renzi in direzione), che con alcuni segmenti (di cui dalle nostre parti abbiamo gli epigoni più coloriti) che hanno mescolato il congresso con la battaglia referendaria (in piena sintonia con la vecchia logica del social-fascismo per cui il nemico principale è quello interno che non la pensa come te). Si andrà quindi a un congresso di chiarimento, con esplicite piattaforme programmatiche. L’ideale sarebbe congresso a marzo ed elezioni a giugno. In uno scenario del genere Renzi sarebbe in pista e io lo sosterrei, per il ragionamento svolto. Non sarei stupito di trovare su posizioni diverse qualcuno che, fino ad ora, non ha mancato di manifestare acritica adesione.

Insomma, c’è molto da fare. Abbiamo le forze e le idee. Serve però anche il contesto, che non possiamo determinare. Le condizioni oggettive, come si usava dire. Se lo spazio resta aperto, noi ci siamo.