Venerdi sera la RAI ha riproposto la miniserie televisiva in due puntate “Il cuore nel Pozzo”, film del regista Alberto Negrin, incentrato sulle vicende della pulizia etnica in Istria nei confronti della popolazione italofona da parte delle truppe titoiste nel periodo finale della seconda guerra mondiale. Interpreti di una bravura eccezionale come Giuseppe Fiorello e Leo Gullotta contribuiscono a rendere forte e realistica nella sua drammaticità tutta la vicenda nella quale sono tra l’altro protagonisti dei bambini di lingua italiana di un orfanatrofio che cercano di sfuggire, riuscendovi, alla repressione.
Il film è stato replicato la sera del 10 febbraio la data in cui in Italia dal 2005 si celebra la “Giornata del Ricordo”, dedicata a questo genocidio che ha avuto nelle foibe, le cavità e i colatoi carsici in cui venivano fatti cadere e occultare i corpi delle vittime, l’elemento simbolico più rilevante a cui allude il film nel titolo ( “il pozzo”). Va detto che dopo le comprensibili e fondate polemiche per i silenzi storici e massmediatici che in questi settant’anni si sono avuti su tutta la vicenda, oggi finalmente è resa giustizia a quest’evento e il dramma degli esuli italiani dalle terre istriane e dalmate è riconosciuto e ricordato come merita. Peraltro va detto che il Comune di Venezia ha dedicato ai “Martiri delle Foibe” una bella piazza nella Municipalità di Marghera.
Vedere questo film e assistere alle realistiche ricostruzioni della feroce violenza dei soldati e delle formazioni paramilitari slave fa pensare e richiama alla mente quanto può di orrore la sottocultura del nazionalismo esasperato, della purezza etnica, del motto “sangue e suolo” ( Il “blut und Boden” del nazionalismo tedesco, molto utilizzato poi dal Hitler ), che pure ha un’origine in cui l’idea di nazione aveva tutt’altri connotati. Ma come ben si sa le idee e i valori pur rimanendo immutati nella loro formulazione lessicale assumono e possono assumere significati del tutto opposti a seconda di come vengono interpretati e utilizzati più o meno strumentalmente.
Varrà la pena ricordare per esempio, ma è cosa nota, che la ingiustificabile reazione titina e dell’etnia slava era stata fomentata alla grande dal ventennio fascista che in quelle stesse terre aveva operato la medesima forma di imposizione dell’etnicità italiana soprattutto, ma non solo, nell’imposizione linguistica; a sua volta coltivata e alimentata da una decennale retorica nazionalista che ha avuto in Gabriele D’Annunzio l’interprete e il fomentatore principale, attraverso la sua capacità di rivestimento culturale del preteso diritto nazionale italiano all’espansione in Adriatico e nel Mediterraneo. Mari questi ritenuti con le terre che vi si affacciano di esclusiva competenza italiana attraverso insostenibili richiami alle grandezze imperiali dell’antichità . Fossero o non fossero di lingua Italiana. Nel caso degli italiani Istriani e Dalmati, essi italiani, pur come enclave in un mondo tutto slavizzato da secoli, lo erano sicuramente anche se di una tutta speciale italianità , di origine soprattutto veneziana e triestina.
Ragione e torto in questi e molti altri casi sono parole che non hanno nessun senso se non per sottolineare che sono anche in tale circostanza parole intercambiabili. La vicenda israeliano-palestinese nella contemporaneità è oggi l’emblema più visibile di queste contrapposizioni in cui tutti sono vittime e tutti sono carnefici alla stessa maniera, anche se non nello stesso momento. Vittima sempre lo è la popolazione civile, meno i governanti, anche se per la semplice proprietà transitiva, data l’origine in qualche modo rappresentativa dei governanti, si può dire che la popolazione civile è un pò sempre vittima anche di sé medesima. Questa israeliano-palestinese è peraltro la vicenda più nota e visibile che è replicata in decine e decine di situazioni in tutto il pianeta, con risvolti e cascami, anche quando ammantate di moderatismo, a tutte le scale territoriali, regionali, subregionali; a volte anche di localismo e di identità urbane e civiche, fino alla fazione sportiva e o alla fazione sociale in genere, con risvolti anche in altri tipi di appartenenze, religiose e soprattutto politiche; ben espresse queste nel nostro paese dallo squadrismo politico degli anni ’20 e degli anni ’70 del secolo scorso.
E’ sommario accomunare tutto sotto lo stesso segno? Io credo proprio di no e difendo questa apparente sommarietà perché la pulsione è eternamente sempre la stessa e va ricercata nella volontà di sopraffazione che l’identità individuale e collettiva pretende per affermarsi a tutte le scale geografiche e in tutte le possibili circostanze sociali e politiche; si basa sul principio: io sono io e ho ragione per il solo fatto che esisto e che non sono tu.
D’altra parte anche in Europa e nel cosiddetto occidente stiamo vivendo una fase storica pericolosamente incline alla ripresa di questa pulsione esclusiva a cui si tenta di dare quella dignità e quella legittimità politico culturale che non può avere. L’ascendente “trumpismo” (ormai il neologismo è affermato) le sintetizza tutte e quanto sia potenzialmente contagioso (o sia stato contagiato dal momento che è venuto dopo) è testimoniato dal fatto che aveva già trovato terreno fertile persino nelle placide e benestanti democrazie del nord Europa che si sono sempre fate apprezzare per la capacità di coniugare benessere sociale e buona accoglienza. Nel resto d’Europa sorprende meno, Francia e Italia in testa, perché lì invece ci sono culture che hanno fatto scuola.
Per tutte queste ragioni il film di Negrin andrebbe riproposto continuamente come icona di questo antivalore per poter con pazienza coltivare il seme e la pianta del suo opposto, che, pur dichiarato a grandi lettere in tutte le costituzioni democratiche e in quella universale dei diritti umani, non riesce ad affermarsi perché estraneo ai processi economici e sociali che si affermano per la loro maggior forza pratica e concreta. Questo manca in effetti la concretezza di un valore e di un’idea.
Per tutto questo si può dire che il genocidio italiano nella ex Jugoslavia altro non è che un segmento significativo della perdurante bestiale ottusità umana che sa operare bene ed efficacemente spesso solo in questa direzione. Va bene distinguerlo, ma sarebbe ancor meglio se si riuscisse a ricordarlo in un contesto universale, una sorta di giornata di tutti i genocidi e delle vittime civili che hanno contrassegnato la storia di un’umanità anche solo negli ultimi due secoli. Farne un facile primo elenco farebbe torto a quelli che d’istinto non mi vengono in mente o che semplicemente ignoro. Anzi in questo momento la memoria e il ricordo va anche e soprattutto a questi che ignoro.

Carlo Rubini (Venezia 1952) è stato docente di geografia a Venezia presso l’istituto superiore Algarotti fino al congedo nel 2016. Giornalista Pubblicista, iscritto all’albo regionale del Veneto e scrittore di saggi geografici, ambientali e di cultura del territorio, è Direttore Responsabile anche della rivista Trimestrale Esodo.