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A distanza di qualche settimana dalla pubblicazione di un mio contributo sul parlar bene, vorrei spendere qualche riflessione sul grido d’allarme lanciato di recente da sociologi, docenti universitari, accademici della Crusca, filosofi. Grido, che esordisce pressappoco così: “ Molti studenti scrivono male in italiano, servono interventi urgenti”. Si continua dicendo che gli errori commessi sono appena tollerabili in terza elementare e si denuncia l’assenza di volontà politica nell’affrontare questo problema. Si tratta di un’invocazione volta a far prendere coscienza di un inquietante fenomeno di analfabetismo di ritorno, farne cogliere la gravità e, nello stesso tempo, dare a tale fenomeno una battuta d’arresto. In poche parole, basta con le lamentazioni, basta con le critiche sterili, basta col piangersi addosso che la scuola non forma e che sforna falangi di asini. È il caso di essere operativi, chiedendo l’aiuto di chi ha il potere di cambiare le cose. E anche la volontà.  
È importante che si dia un valore politico a questa iniziativa. La lettera infatti è stata indirizzata al Governo e al Parlamento. Non mi pare, invece, che si enfatizzino – come si è solito fare – le responsabilità della manovalanza scolastica. In alcuni punti, anzi, si fa riferimento esplicito all’impegno degli insegnanti, costretti a colmare, con la propria dedizione, le voragini sempre più estese imposte dalle politiche restrittive che si sono susseguite negli anni.
Il problema c’è. Ed è grande. Malgrado non sia molto sentito dall’opinione pubblica, è tuttavia diffuso e in crescita, e difficilmente ascrivibile a docenti stolti e impreparati, che non mancano senz’altro, ma che non possono essere l’unica causa di cotanto disastro. Vediamo di capirci qualcosa, allora, e di individuarne i motivi.
Nella scuola dell’obbligo si è compiuta nel corso degli anni una crescente complessificazione dell’insegnamento di base. Quest’ultimo, anziché concentrarsi su poche essenziali competenze, si è andato sempre più arricchendo di nuove e talvolta inutili istanze che hanno indebolito i nuclei portanti su cui si fonda l’insegnamento delle discipline. In parole povere, per dare lustro e visibilità alle scuole, è stata gonfiata a dismisura l’offerta formativa. Ed ecco che accanto agli insegnamenti cosiddetti tradizionali sono spuntati come funghi micro e macro progetti che vanno dal corso di decoupage alle sedute di autocoscienza, dal torneo di scacchi ai seminari di musica andina, dal corso di campana tibetana al laboratorio di cucina serbo croata. Nulla da eccepire sulle tante occasioni formative che hanno aperto infinite finestre sul mondo ai nostri studenti. Tale arricchimento andava molto bene quando il tempo contenitore delle attività didattiche era lungo e dilatato. Quando, cioè, nelle scuole elementare e media erano stati istituiti rispettivamente tempo pieno e tempo prolungato. Tali modelli organizzativi avevano lo scopo di offrire a tutta la popolazione scolastica – e in particolare a quella più deprivata- attività che rafforzassero il repertorio di esperienze dei ragazzi. Erano modelli pensati per soggetti deboli e per famiglie bisognose, e scaturivano da politiche attente ai temi di giustizia sociale e di uguaglianza.
Col tempo, per mere ragioni di risparmio, i tempi scuola sono stati depauperati della loro ricchezza originaria. Sono state ridotte le ore di insegnamento frontale di alcune materie. Prima tra tutte l’italiano, con gravissimo nocumento delle competenze di grammatica, sintassi, lessico. Le regole di altre lingue si sono sovrapposte alle nostre con una conseguente impropria commistione che non fa bene né alle une né all’altra. Il congiuntivo, per esempio, che è il verbo del dubbio e della possibilità, il verbo della ricerca e della curiosità intellettuale, ha perso il suo peso. Forse perchė in inglese non esiste? Chissà. Sta di fatto che si usa sempre meno e sempre peggio.
In tutti questi anni, in nome di una innovazione che fosse al passo coi tempi, sono state privilegiate le esigenze di facciata delle singole scuole e delle loro possibilità di spendersi sul mercato, rispetto a finalità imprescindibili come quella, appunto, di mettere gli studenti nella condizioni di parlare e scrivere un italiano corretto.
Il guaio ė che le varie riforme e controriforme degli ultimi anni hanno perseguito un’idea di scuola sempre piu professionalizzante e sempre meno formativa. Ciò significa che si è privilegiata la sua funzione propedeutica di addestramento al mondo del lavoro e dell’impresa, trascurando invece quella di preparazione alla vita, alle relazioni umane e alla dimensione etica e politica del cittadino. Nella scuola ha via via preso piede una logica aziendalistica che si è fatta beffa delle lettere, della grammatica, della sintassi, della storia e della filosofia, ritenute inutili passatempi per giovin signori dediti all’ozio e alla mollezza dei costumi. D’altra parte, un ministro dell’economia tempo fa sosteneva che con la cultura non si mangia. E che dire delle tre ”i” tanto sventolate all’inizio del terzo millennio? Era forse compresa in queste la “i” di italiano? No di certo. Inglese, impresa, informatica. Nell’altro.
Si affermava un’idea di scuola, moderna, digitale, pienamente aderente ai nuovi linguaggi del mondo esterno. La scuola non poteva e non doveva restarne fuori. In questo progressivo adattamento, sia pure utile e imprescindibile, non si è stati in grado tuttavia di gestire l’impoverimento della lingua che l’assunzione dei nuovi codici ha comportato. Il linguaggio sincopato degli sms, lo scarso rispetto delle regole della punteggiatura, tipico delle mail, la sintassi ridotta all’osso, l’incapacità di emanciparsi dalla logica del copia incolla dal web sono figli dell’impotenza di una scuola che vorrebbe, sì, fare da ccontrappeso a un uso selvaggio delle tecnologie, ma che è messa alle strette da una legislazione riduttiva e penalizzante. La lingua italiana è utile e utili sono le discipline umanistiche. Sono quelle discipline che aprono gli occhi, rendono critico il pensiero, liberano dalle catene dell’ignoranza e permettono di vedere la realtà e non solo le sue ombre. Ma forse la retorica dell’inutilità di queste discipline è utile a una logica di sopraffazione. È più vantaggioso creare dei tecnici disciplinati e acquiescenti, sudditi insomma, piuttosto che cittadini attenti e critici. In poche parole, la lingua, parlata e scritta, e le lettere in generale fanno bene al pensiero, ne aiutano i meccanismi, li rendono più fluidi. Ma, soprattutto, creano cittadini onesti e consapevoli. E oggi, più che mai, ce n’è bisogno.