La Regione Veneto ha detto sì: il quinto referendum sulla separazione tra Mestre e Venezia dell’attuale comune unitario dovrebbe, quindi celebrarsi. Presto. Trionfo della democrazia? Sì e no.
Mi spiego. Chi ha la mia età, i quattro precedenti li ha vissuti in presa diretta. Il primo si è celebrato nel 1979. Un secolo fa. In ogni senso. Allora il dibattito fu appassionato, la partecipazione massiccia, l’esito nettissimo. A favore dell’unione. In seguito, a scadenze quasi regolari, abbiamo avuto altre occasioni per esprimerci in materia. Cosa si è visto? Il dibattito sempre più fiacco, la partecipazione ridotta, il risultato avvicinarsi progressivamente al pareggio. Fino al quarto referendum, che non raggiunse neppure il quorum minimo necessario.
Ci si potrebbe domandare perché. La risposta è semplice. Se all’inizio la grande maggioranza delle persone attribuiva all’argomento importanza decisiva nel produrre conseguenze sul proprio destino, con il passare del tempo e delle disillusioni politiche ha maturato la convinzione che unione o separazione siano indifferenti. Così si è arrivati al mancato quorum del quarto referendum. Storia finita? Neanche per sogno.
Raccolte le firme, proposto il quesito, ottenuta l’approvazione della Regione il referendum si farà. Intanto, però, sono nate le città metropolitane con la famosa legge Del Rio. Nell’impalcatura “renziana”, se così posso dire, del decentramento amministrativo dovevano prendere il posto delle province in determinati ambiti territoriali. Anche a Venezia.
Personalmente non ho mai amato questa soluzione. A mio parere le provincie andavano eliminate punto e basta. Salvando solo quella di Bolzano a causa dei trattati internazionali che la tutelano. Lo stesso andava fatto con Cnel e Senato. Via. Magari, ricordandosi della proposta D’Alema, sì proprio lui, di qualche anno fa: Camera Unica con 300 deputati chiamata Parlamento. Ottima cosa. Da qui il mio stupore nello scoprire il suo autore tra i paladini del No, il 4 dicembre passato. Transeat. Torniamo al nostro Comune.
Il richiamo alla legge Del Rio non è casuale. Perché, in base a questa, è il Comune, di Venezia, il cui Sindaco è pure Sindaco della Città Metropolitana, il soggetto abilitato ad ammettere o meno il referendum. E il Comune ha detto no. E la Regione? Ha ribaltato l’esito di quel voto aprendo, di fatto, un contenzioso: qualunque sia l’esito della consultazione, questo potrebbe essere annullato. La discussione non è affatto oziosa: infatti, chi dovrebbe votare, per esmpio, nel caso di separazione del comune che esprime il Sindaco della Città Metropolitana? Solo i residenti nel Comune di Venezia oppure tutti quelli della Città Metropolitana? Perché, domani, non sarà più automatico che il Sindaco di Venezia non più centro principale della Città Metropolitana sia anche Sindaco di quest’ultima. Lo diventerà il Sindaco di Mestre? Mah…
Nell’attesa che qualcuno m’illumini in materia, m’interrogo sul ruolo della Regione. E saldo la sua decisione, avversata dal Comune governato da un’amministrazione espressa dal medesimo schieramento politico, con un’altra assunta da poco. Mi riferisco al riconoscimento della Lengoa Veneta quale seconda lingua ufficiale.
Qualcuno si chiederà cosa c’entri. Molto più di quanto non si potrebbe credere. Di recente, Sul Corriere del Veneto inserto di Padova, l’articolista discettava sulla centralità della città euganea nel “sistema veneto”. Appena sottolineata dal primato conseguito dalla sua Università in campo nazionale aggiungo io. Bene. Il passo successivo è una domanda su un elemento che i sostenitori della separazione tra Venezia e Mestre credo abbiano trascurato: può essere capitale regionale una città, Venezia, di appena 50/80 mila abitanti, a seconda dei sistemi di calcolo, vale a dire la minore o quasi tra i capoluoghi di provincia e non più cuore della Città Metropolitana? Oltretutto periferica nella regione, il cui baricentro geografico si colloca tra Padova e Vicenza. Ricordo che anche la Lengoa Veneta ha come base il parlato del triangolo Padova-Vicenza-Rovigo: del resto, come a suo tempo ricordava Manlio Cortellazzo si tratta di quello numericamente maggioritario.
La legge non impone che la capitale regionale sia la città più grande, per carità, ma resta da capire se possa essere opportuno lo sia la città con maggiore “peso strategico”: come dappertutto. Lo sarebbe Venezia ridotta alle isole?
Credo di no. E siccome sono un dietrologo per natura, trovo una singolare convergenze di intenti tra questi fatti all’apparenza slegati: Lengoa Veneta, autonomia regionale e frantumazione del Comune di Venezia. Invertiteli, se preferite, ma il prodotto non cambia. Il risultato finale sarà il trasferimento della capitale della nuova Regione Autonoma a Padova, per esempio, oppure in qualche altro “luogo” della Terraferma. Padova, però, mi sembra più indicata. Verona è leggermente superiore come numero di abitanti, ma si riproporrebbe il problema della posizione geografica e della lingua. I veronesi parlano in modo diverso. Padova è perfetta: più comoda rispetto alle isole, maggiormente popolata e vi si parla il nuovo idioma ufficiale della Regione Autonoma. Fantasie?

Federico Moro vive e lavora a Venezia. Di formazione classica e storica, intervalla ricerca e scrittura letteraria, saggistica, teatrale. È membro dell’Associazione Italiana Cultura Classica e della Società Italiana di Storia Militare.
Ha pubblicato saggi, romanzi, racconti, poesie e testi teatrali.