Vedremo quanto inciderà nell’elettorato la scelta di una parte della minoranza del PD di uscire dal partito e vedremo anche quanto inciderà il ‘combinato disposto’ con il caso Papà Renzi-Lotti, su cui mi pare quasi nessuno nell’area del partito ha avuto il coraggio di speculare, anche se qualche tentazione di sciacallaggio a sinistra non è mancata, come era logico aspettarsi. Per ora solo 5 Stelle e Lega stanno cavalcando alla grande il fatto; e se no che populisti sarebbero se non colgono occasioni così ghiotte? I dati di Repubblica di oggi ci dicono al contrario che PER IL pd il prezzo da pagare per la scelta dell’uscita della minoranza della minoranza si attesta intorno ai due punti percentuali. E già questo, tenendo conto anche del ricordato ‘combinato disposto’, dice molto sulla natura di questa scelta fatta anche, a sentire i protagonisti e i giornali che ci hanno inzuppato il pane nelle interviste-fiume, per coerenza con la gran massa (massa?) di elettori che se ne sarebbero secondo loro già andati via perchè schifati dalla linea del partito.
C’è chi pretenderebbe di chiamarla allora solo una ‘fuoriuscita’ dal PD quella di D’Alema, Bersani ed Errani, che su scala veneziana significa fuoriuscita di parlamentari come Davide Zoggia, Delia Murer e Felice Casson. E tutti questi tendono ad accreditare il loro gesto come una scissione per dare maggiore dignità e peso alla sofferta, dicono loro, scelta. Che va invece derubricata come un classico costante ricorrente della vita politica praticamente ovunque nel pianeta: c’è sempre qualcuno che più o meno individualmente decide di lasciare una formazione politica perchè legittimamente non ci sta bene. Ma è una ‘scissione’? Val la pena allora ricordarne alcune di vere Scissioni con la S maiusola, non per dare lezioni di storia ai lettori di LG che queste cose conoscono bene, ma per fare un po’ mente locale con una sorta di promemoria per capire di che cosa si tratta al confronto e di cosa, come si dice, stiamo parlando.
Infatti le scissioni politiche nella storia recente sono sempre state una cosa molto seria, a volte drammaticamente seria, nate da divergenze ideologiche e programmatiche nette, evidenti ben individuabili e radicali nell’essere alternative tra di loro. Paradossalmente, ma mica poi troppo a ben vedere, le scissioni hanno anzi offerto ai cittadini, agli elettori, ai militanti un’occasione di dibattito anche duro e comunque un’occasione concreta per capire le differenze dell’offerta politica nella rappresentanza o da parte dei leader. Senza scomodare le diverse fasi della troppo lontana Rivoluzione Francese, fasi tutte comunque scandite da scissioni risultanti da linee evidenti e divergenti sulla conduzione rivoluzionaria, nel ‘900 per noi più comprensibile, data la vicinanza temporale, si è assistito frequentemente a scissioni nel campo soprattutto della sinistra internazionale, dovute a divergenze tra moderatismo e gradualismo da una parte e radicalismo intransigente dall’altra. I bolscevichi di Lenin e Trotsky non nascono forse da una scissione? Di minoranza per altro, come vuole la traduzione del termine. In italia furono cose molto serie le scissioni da cui nacque il PCI nel ’21, le cui evidenti motivazioni, legate a quelle internazionali citate, sono troppo note per doverle ricordare; seria quella da cui nacque il PSDI nel 1947, nota come scissione di “Palazzo Barberini”, dovuta a divergenze profonde tra una corrente atlantica, occidentalista e riformista del PSI e il sempiterno massimalismo socialista che allora aveva in Pietro Nenni il suo maggiore esponente, scissione riconfermata vent’anni dopo, e per ragioni simili, a seguito di una breve ed effimera riunificazione; seria eccome, portata a compimento da uomini di grande coerenza umana e politica, unita a un granitico ideologismo iperconservatore, come Cossutta, Libertini, Garavini e l’allora giovane Vendola, fu quella da cui nacque nel ’91 Rifondazione Comunista dopo la nascita del PDS di Occhetto. Precedentemente vent’anni prima era stata serissima ed evidente nella sua ragion d’essere l’espulsione dal PCI, quindi una scissione a loro imposta e che forse avrebbero fatto lo stesso, del cosiddetto gruppo del Manifesto, Rossanda, Magri, Castellina, Pintor tra gli altri. Mi è parsa seria e comunque riconoscibile anche una recente scissione nella destra che avrebbe meritato miglior fortuna e abortita perché una destra moderata e democratica in Italia è un’ossimoro, la scissione dall’allora PDL che portò avanti Gianfranco Fini qualche anno or sono. Tutte esperienze realmente scissioniste, accomunate nella loro varietà dall’essere molto leggibili nel loro dipanarsi anche drammatico e lacerante sul piano delle relazioni umane tra le persone, ma soprattutto molto leggibili nei contenuti politici (del resto nessuno potrà mai dimenticare come a scandire storicamente l’inizio della fine politica del berlusconismo ci sia stato quel dito indice sbattuto in faccia da Fini al suo leader). I democristiani si scindevano poco nella prima Repubblica per il ventre largo della Balena Bianca che tutto conteneva e si sono spaccati e scissi in due come una mela solo di fronte al sistema maggioritario dei primi ’90 che ha decretato la fine di un partito largo di centro. Martinazzoli e la linea cattolico democratica da una parte e la DC clericale e tradizionalista dall’altra. Scissione storica, proprio per la sua natura marcatamente politica.
Tornando allora al 2017 questa scissione/fuoriuscita da cui nasce DP ( la sigla che si sono dati Bersani e c.) vi pare al confronto con la storia una cosa altrettanto seria dal punto di vista della comprensibilità e della leggibiltà da parte del cittadino elettore? Seria lo sarà forse umanamente perché vanno sempre e comunque rispettate delle scelte che coinvolgono le persone. Niente da dire, fate, andate, ognuno fa la sua strada e quella che gli è più congeniale. Le strade si riincroceranno, forse si, forse no, chissà. Ma sono seriamente comprensibili le discriminanti politiche, anche rispetto a tutte le scissioni vere citate prima, che portano un piccolo, seppure rappresentativo, gruppo ad uscire platealmente da un partito sbattendo la porta? Si pensi a quell’identità ” di sinistra” che gli scissionisti/fuoriusciti vogliono fieramente, ma maldestramente a parer mio, darsi. Posto che la categoria stessa di sinistra oggi sia di difficile riconoscimento e risulti sempre meno utilizzabile efficacemente nella geografia politica ( questo lo ribadiamo da quando LG è sorta), proviamo per un momento a riferirci, accettandolo pienamente, al concetto tradizionale di ‘sinistra’ legato ad alcune discriminanti un tempo sicuramente riconoscibili. Di sinistra la compagine di Bersani in che senso ? Per esempio, ma è solo un esempio che si potrebbe replicare, il Bersani ministro del governo Prodi si è a suo tempo reso responsabile di una delle regolamentazioni o riforme del commercio improntate al liberismo più radicale, che in altri tempi secondo i canoni tradizionali si sarebbe detta di ‘destra destra’; e che noi a Venezia conosciamo bene per le conseguenze sul tessuto commerciale della città che da allora, proprio attraverso quel decreto, ha preso una china per certi aspetti devastante. E e si potrebbe continuare. E ancora, ma più in generale. I Bersani e gli Errani vengono da una consolidata cultura di governo regionale nell’Emila Romagna improntata alla più classica delle gestioni del capitalismo rosso, efficiente quanto monopolista nel suo imporsi sul territorio. Possiamo considerarla di sinistra secondo i canoni tradizionali questa persino efficiente cultura di governo, se, come da tutti è stato riconosciuto, è stata improntata ad un pragmatismo realista, a cui la questione sociale dell’economia e delle scelte politiche che la determinavano andava comunque subordinata? Certo i nostri hanno osteggiato Renzi sulla riforma costituzionale e sul Job Act. Tutto da vedere se il dissenso alla riforma costituzionale possa definirsi ‘di sinistra”, visto le alleanze su quel fronte che spaziavano fino alla Lega e a Forza Nuova. Possono forse apparire formalmente come critiche da ‘sinistra’, quelle sul lavoro, ribadite dall’identità, chiamiamola laburista, della nuova formazione degli scissionisti/fuoriusciti. Formalmente, perchè qui torna in campo l’anacronismo dell’assegnare una matrice di ‘sinistra’ alla rigidità della difesa dei diritti dei già garantiti a prescindere. E’ infatti più di sinistra questa rigidità e questa blindatura dei diritti, di netta marca cigiellina e circoscritta solo a una parte di chi già lavora o una linea che cerca di operare concretamente perchè il diritto al lavoro si allarghi, ai tempi della società globale e liquida, ad uno spettro più ampio dei corpi sociali rispetto ai garantiti di sempre? Ed è francamente patetico che per accompagnare la fuoriuscita/scissione, che ha motivazioni invece molto più terra terra, si tenti con un simbolismo d’antan ( Bandiera rossa, Bella ciao, la Locomotiva di Guccini) di coprire le reali ragioni di questa scelta. Che stanno tutte nel fatto che comunque Matteo Renzi è almeno in parte riuscito effettivamente a ‘rottamare’ quella dirigenza che in venticinque anni di seconda repubblica ha elettoralmente riportato solo sconfitte o vittorie di Pirro e che quando ha governato ( il mitico ‘Ulivo’), non è mai riuscita ad imporre una vera svolta all’economia e alla società italiana. Anzichè accettare di stare in minoranza scelgono di mettersi in proprio ( e questo ci sta), rovesciando contemporaneamente sull’ormai ex premier ed ex segretario di partito la responsabilità della rottura, cercando di motivarla sui contenuti. Ma il gioco è scoperto. In realtà loro si sentono da sempre i detentori della ‘ditta’ e non accettano che un corpo estraneo, un haker si direbbe, si sia introdotto nel loro sistema per appropriarsene. Bersani, ma dietro di lui soprattutto D’Alema, non hanno tollerato questo e mascherano sui contenuti, come un Civati e un Fassina qualsiasi, una scelta dettata dalla perdita di ruolo di un’intera classe dirigente. C’è infine però da osservare che il corpo del PD resta sostanzialmente integro con la sua pur lacerata e complicata breve storia. Val la pena solo ricordare che restano con determinazione nel PD, e ci restano appoggiando Renzi in queste prossime primarie e non altri, due uomini del calibro di Piero Fassino e Walter Veltroni, nientemeno che il segretario della fondazione del PD e l’ultimo segretario dei DS prima della scioglimento e della fondazione del PD. Dice: ma anche loro erano ‘ditta’. Vero, ma la loro storia è stata quella che alla ditta hanno sempre assegnato un ruolo di mezzo più che di fine. E infatti loro due che restano con convinzione saldamente nel PD sono stati anche i più convinti sostenitori della svolta che portò nel ’91 allo scioglimento del PCI e alla nascita dell’allora PDS, uno snodo decisivo nel cammino che poi sfociò vent’anni dopo nel PD. Ha oggi il suo disvelamento definitivo la differenza netta, ben evidente ai nostri occhi già allora, tra Veltroni e Fassino da una parte e Massimo D’Alema dall’altra, che quella e le successive svolte utilizzava solo strumentalmente per mantenere il potere nel partito, adattandosi volta a volta alle circostanze che le vicende esterne necessariamente imponevano. E’ uno schematismo estremo questo, forse eccessivo, ma simbolicamente mi pare efficace.

Carlo Rubini (Venezia 1952) è stato docente di geografia a Venezia presso l’istituto superiore Algarotti fino al congedo nel 2016. Giornalista Pubblicista, iscritto all’albo regionale del Veneto e scrittore di saggi geografici, ambientali e di cultura del territorio, è Direttore Responsabile anche della rivista Trimestrale Esodo.