By

Partiamo da un dato positivo e assolutamente unico nel panorama politico italiano. il PD è l’unica formazione politica che esercita ancora l’arte della partecipazione democratica. Più di 260 mila partecipanti a questa fase congressuale, migliaia di circoli coinvolti, decine di migliaia di persone che hanno discusso e si sono confrontate. E poi hanno votato per i 3 candidati. Dove troviamo un’altra situazione simile?

Nel M5S che si è trasformato da democrazia diretta – falsa come la moneta fin dalle sue origini – a impero autocratico dove “uno vale uno” solo “se si fa come dico io”? E dove partecipa alle “decisioni” qualche decina (non di migliaia, proprio solo decine) di persone?

Nella Lega che va a congressi una volta ogni morte di papa e fa conoscere le posizioni del suo leader unicamente attraverso Twitter e i social?

Per non parlare del Centrodestra, Forza Italia su tutti, che la parola “congresso” l’ha abolita per statuto monarchico.

E adesso, per concludere il percorso virtuoso, si va alle “Primarie” del PD. Dove sono attesi qualcosa come 2 milioni di partecipanti: gli elettori che si riconoscono nelle posizioni politiche del PD. E via con la democrazia partecipativa e rappresentativa.

E tutti lì a gufare sui numeri, a cincischiare su qualche magagna, che sarebbe meglio non ci fosse, ma che non inficia la qualità complessiva della partecipazione. Tutti lì a fare le pulci e a rosicare sul risultato ottenuto da Renzi, messo a confronto con un valido competitor come Orlando e con un istrione come Emiliano.

Tutto bene dunque?

Anche no. Perché il clima è depresso e perché l’entusiasmo fa fatica ad emergere. Sembra quasi un atto dovuto e un processo scontato. Fin qui non sono emerse grandissime opzioni politiche che possano aver allargato l’orizzonte, la discussione è andata via abbastanza piatta e uno dei pochi elementi di vivacità è stata ancora una volta la contrapposizione dei candidati, quasi fossero rappresentati di schieramenti diversi e opposti e non invece concorrenti all’interno della stessa formazione politica, la quale potrebbe trarre vantaggio e arricchirsi da questi confronti che dovrebbero avere la caratteristica più della sostanza che della forma. Ma va così, sperando che nella fase delle “primarie aperte” si possano cogliere meglio e di più le opzioni e le istanze politiche.

Perché c’è bisogno di capire dove vuole andare a collocarsi il PD, quali interessi vuole portare avanti, quali alleanze vuole stringere, quali scelte strategiche vuole compiere per il Paese. In sostanza su quale piattaforma politica, su quali valori, su quali idee vuole fondare la sua volontà di affermazione di una leadership che nel panorama nazionale non è né scontata, né semplice da costruire.

Perché poi Matteo Renzi che, indubitabilmente sarà il vincitore di questo confronto, non si è scrollato ancora di dosso la patente di “divisivo”, di uomo poco propenso alle mediazioni, troppo schiacciato sulla volontà di dominare e di non essere aperto e disponibile al confronto.

Ci sono ancora troppi dubbi sulla sua capacitĂ  di collocarsi stabilmente nel centrosinistra e di non indulgere invece ad accordi con parti anche significative del centrodestra.

Di non essere stato capace di svolgere un’analisi approfondita sulle ragioni della sconfitta del 4 Dicembre, di continuare a rimanere abbarbicato ad un risultato, quello del 2014 – che non sarĂ  certamente ripetibile, sicuramente non a breve – di non essere capace di prendere atto dei risultati non proprio brillanti delle ultime Amministrative, di non aver saputo convincere della correttezza di alcune scelte compiute durante i 1000 giorni di Governo. E così via politicando.

Paradossalmente si rischia di dover dare ragione ai più dubbiosi e a quelli che lo osteggiano per partito preso e che pur di non “farsi contaminare” sono disposti a fare scelte autolesioniste e penalizzanti per tutto lo schieramento progressista e riformista.

E allora c’è bisogno di un colpo d’ala, di affermare la volontà di farsi “federatori”, di riuscire a tenere assieme tutti, tutti quelli che sono disposti ad un confronto costruttivo, anche perché senza una vera riforma del sistema elettorale si rischia l’impaludamento e lo stallo per molto tempo ancora.

Il Paese farebbe fatica a reggere una situazione “alla spagnola” e le spinte populiste, sovraniste, nazionaliste, antieuropee – antieuropeismo, la vera minaccia politica di questi tempi – potrebbero mettere altro fieno in cascina e rendere ancora più difficile l’affermazione di una spinta progressista, realmente europeista e fermamente riformista.

A Matteo Renzi va allora chiesto con forza di saper garantire una vera leadership proprio sulla capacità di tenere la barra dritta facendo sì che tutti riescano a remare convintamente nella stessa direzione: “Harambee!” come recita il titolo di un bel libro dell’altro Matteo (Richetti).