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17 Ottobre 2017La ricaduta locale della scissione dal PD che ha fatto nascere Mdp è a parer mio esemplare di ciò che, con essa, è realmente accaduto e sta ancora accadendo a livello nazionale; e offre la possibilità di una lettura in controluce che dimostri se ci sono e ci sono state ragioni di contenuto, di programma e di valori di fondo a far emergere questa presunta insanabile differenza tra il PD a gestione renziana e la componente che se ne è andata. A parer mio ci sono ovviamente state delle ragioni serie che hanno determinato questa scelta, ma non vanno ricercate nei contenuti, anche se adesso gli scissionisti sbandierano, comprensibilmente, le divergenze di linea addirittura divaricanti; lo fanno per coprire un altro tipo di disagio, estraneo ai contenuti di fondo, che è stato dirimente. E veniamo appunto alla ricaduta locale, veneziana, per cercar di capire.
Il gruppo di chi ha operato la scissione a Venezia è stato quello che in città e in provincia ha retto ( e detto tra noi, numeri alla mano, anche oggi avrebbe potuto continuare a reggere) sulle sue spalle per anni, seppure poi in coabitazione con altri, il partito dopo la fondazione del 2007. Forte dell’esperienza dirigenziale precedente nei DS e prima ancora nel PDS. Se il PD è stato l’”ultimo partito”, per parafrasare l’indovinato titolo del libro celebrativo dei dieci anni della fondazione, e che vuol dire “l’ultimo ‘vero’ partito”, a Venezia lo si deve a loro, a questo gruppo dirigente. E dico ‘gruppo’ per la loro capacità di fare, appunto, gruppo anche nel senso ‘lobbistico’ del termine e che in politica non deve certo scandalizzare.
Perché tutto si può dire di questo gruppo ma non che non fosse ‘formato’ e, anche qui, nel senso migliore del termine, ‘formato’ per fare politica di partito. E’ un gruppo di oggi cinquantenni/sessantenni, nato dopo la fine del PCI e per alcuni subito dopo la svolta occhettiana, per alcuni altri con esperienza precedente nelle file giovanili del PCI e anche questo vuol dire. In tutti i sensi vuol dire, anche per il punto di riferimento nazionale che questi ex giovanotti hanno avuto nel trapasso storico della Bolognina e del crollo del muro. E il punto di riferimento, quantomeno iniziale ma determinante per sempre nella loro formazione, si chiama Massimo D’Alema, a prescindere che poi in seguito se ne possano essere distanziati o differenziati, o meno. All’inizio per loro e per un bel pezzo era lui il leader sommerso, poi presto emerso anche come segretario. E’ del resto a tutti noto che Occhetto la svolta l’ha potuta fare come l’ha fatta ( e passerà lui alla storia per questo) anche perché D’Alema aveva già in pugno tutta o quasi la struttura federativa del partito ( e Venezia era una di queste federazioni, non certo secondaria in un Veneto bianco) e l’ha fatta digerire, la svolta, alla base, mantenendo lui in mano il partito nazionale e i loro livelli locali. Poi, come già detto, ha fatto direttamente, finchè è stato utile, anche il segretario. La cinghia di trasmissione locale con questo schema nazionale è stato qui a Venezia per anni Valter Vanni, una figura qualificata o, meglio, anche qualificata, ma soprattutto tagliata ad hoc per un’impostazione di questo tipo. I cinquantenni/sessantenni di oggi, quelli del gruppo che è stato allevato e ha poi diretto le diverse sigle del partito, sono nati lì e hanno poi a loro volta filiato una generazione successiva altrettanto ben ‘formata’, oggi di quarantenni/cinquantenni. Ma erano un’emanazione diretta, un continuum.
Hanno gestito il partito in una lunga difficile fase di transizione tra i vecchi parametri del far politica e i nuovi decisamente diversi, nei quali molto è cambiato, dalle ideologie, ai protagonisti locali e nazionali, alle categorie stesse di sinistra e destra. Possono aver dato prova di fragilità e di inadeguatezza rispetto alle più facilitate generazioni precedenti nate e affermatesi solo nel vecchio PCI; ma in realtà, dati i tempi, il partito, anche con la livrea di PD, con loro ha tenuto, è stato in campo socialmente, intendesi nel tessuto sociale cittadino, nel cosiddetto territorio. Radicatissimi nella terraferma comunale e, almeno in una prima fase nella parte rossa della provincia (Riviera), che notoriamente hanno i numeri e le quantità per garantire maggioranze, quasi per un tacito patto avevano lasciato la piazza del centro storico alla vecchia sinistra del partito, consapevoli che alla fine, anche per dato anagrafico, si sarebbe esaurita da sé, come è inevitabilmente accaduto.
Molti di loro hanno avuto a lungo ruoli istituzionali, vice sindaci con Cacciari, Costa e Orsoni, sono stati ripetutamente assessori, presidenti provinciali, sindaci e assessori nell’area rossa della provincia, infine parlamentari come richiedeva la conclusione di un cursus honorum iniziato da giovani peones e che deve, legittimamente vien da dire, alla fine nella maturità incassare per l’abnegazione di una vita trascorsa a tenere insieme, in qualche modo sempre riuscendoci, la struttura partitica nel territorio. Vero che non hanno mai avuto a Venezia una figura di Sindaco espressione diretta del loro gruppo dirigente, ma questa ai più accorti è sempre sembrata una scelta strategica. Voluta per poter poi avere, in contraccambio e come compensazione, posti numerosi, diffusi, ben distribuiti e quindi determinanti in tutti gli altri livelli istituzionali, spalmandosi un pò dappertutto e, si capisce, anche nella macchina istituzionale e nelle municipalizzate. E hanno svolto il loro compito con un profilo moderato, direi quasi curiale, qualcuno direbbe ‘doroteo’ ( definizione del resto assegnata fin dall’inizio al loro padre fondatore, leader Maximo), intenti sempre a mediare, a smussare, a sopire, a non accelerare mai, a gettare acqua sul fuoco di situazioni che potevano sfuggire di mano, attenti semmai ad anteporre le ragioni di partito a quelle cittadine; non per egoismo di gruppo, va detto subito, ma per la consapevolezza tipica e giustificata di chi vede nel partito una garanzia democratica in assenza del quale anche la città ci rimette. Consapevolezza che ha una sua logica. In coerenza insomma con quella volontà (e non incapacità) di “non dire mai cose di sinistra” che il loro padre nume tutelare ha sempre praticato come scelta politica esplicita, da ben prima che se ne accorgesse Nanni Moretti; e in coerenza con il “realismo” di stampo emiliano che il loro successivo tutor, Luigi Bersani, ha sempre espresso quando ha dato il meglio di sé; come quando emanò da ministro uno dei più liberisti e, secondo lo schema di un tempo, destrorsi perché liberisti, provvedimenti dell’ultimo decennio, quello sul commercio.
E vengo al punto, ma la lunga premessa era necessaria.
Sentire oggi questo gruppo, uscito anche a Venezia quasi in blocco dal PD, questo gruppo con questa storia per nulla ignobile, con questa formazione, direi con questo dna moderato che la politica da loro incarnata richiedeva necessariamente, sentirlo oggi esprimersi anche qui da noi, sotto la sigla Mdp, con un’inedita e almeno apparente radicalità, con piglio etico, con la precisa volontà di farsi percepire nettamente di sinistra, stride; e lascia onestamente un po’ di stucco.
Soprattutto lascia di stucco, ma poi ripensandoci fino a un certo punto, chi li ha conosciuti bene, ed io credo di essere tra questi, avendone visto e in certi momenti persino apprezzato tutta la parabola, nonostante loro fossero molto attenti a non portarsi troppo dentro e dar troppo spazio, con qualche buona ragione, a persone eccessivamente indipendenti e poco controllabili e quindi inaffidabili come me : anche la realpolitik ha il suo fascino e loro la interpretavano magistralmente. Ma vederli e sentirli oggi fare il contrario, i radicali e i sinistrorsi, quantomeno su quei grandi temi nazionali per cui nel passato avrebbero proceduto con la stessa e addirittura maggiore cautela che oggi imputano al governo e al PD, fa sorgere spontanea la domanda se ‘ci sono’ o se ‘ci fanno’.
E la risposta, che mi do necessariamente mettendo insieme tutti i pezzi, è che ‘ci fanno’; e non a caso su temi nazionali, tutto sommato più facili da interpretare, perché a livello cittadino riuscirebbe loro più difficile essere creduti radicali dopo che per quasi tre decenni hanno espresso un adattamento alla realtà che li ha resi, almeno in questo, poco formati per esercitare opposizione di contenuto, soprattutto verso chi è già all’opposizione, cioè oggi il PD diventato improvvisamente il nemico numero uno. Infatti si stanno spendendo in città sui grandi temi nazionali ( ius soli, Job act …) per provare a riaggregare una sinistra che si sente orfana e a quanto pare ci stanno persino un pò riuscendo. Ma la stonatura resta perché non è questa la loro vera natura, non c’è questa natura nella loro storia e la sostanziale inadeguatezza al nuovo ruolo, nel cercare di declinarne i contenuti, fa emergere un po’ alla volta la ragione di fondo di una scissione che non ha niente a che vedere con le scissioni storiche del passato nella sinistra e non solo, tutte avvenute con nettezza e lacerazioni quasi solo sui contenuti, sui programmi, sulle cosiddette linee.
Che cosa è accaduto allora, o almeno che cosa sembra in realtà essere accaduto? A me pare questo.
La gestione renziana del PD è riuscita bene o male a portare a casa la rottamazione perché ha ‘fatto fuori’ effettivamente la casa matta nazionale della vecchia classe dirigente, appunto i Bersani, i D’Alema. Dice: ma questo gruppo veneziano, meglio venezian-mestrino, a livello locale avrebbe potuto benissimo, anche dopo la buriana renziana che non lo aveva intaccato troppo, tenere qui la roccaforte e il potere, magari riorganizzandosi e venendo persino a patti, come del resto ha sempre fatto, con le altre componenti di partito; farlo nei ‘caminetti’ intercorrentizi che, come doppio fondo, hanno sempre governato le diverse sigle del partito, alla faccia degli organismi ufficiali, votati pomposamente in assemblee sempre blindate in anticipo e dall’esito sistematicamente scontato. E invece no, e qui si dimostra anche l’aspetto fragile di questo gruppo dirigente e che fa da contraltare a quelli più solidi e determinati di cui si è detto.
Venuta infatti a mancare la casa matta nazionale questo gruppo ha capito al volo che non ce l’avrebbe più fatta, perché sempre dal centro per decenni ha avuto la copertura necessaria per garantirsi localmente e per autoperpetuarsi. Per naturale istinto di conservazione, anche degli scranni parlamentari, preferisce ora mettersi in proprio per tentare una nuova egemonia che domani, chissà, lo faccia magari rientrare in un partito riconquistato dall’esterno, tenendo fin anco cavalli di Troia all’interno del PD, che puntualmente sono rimasti, facendo, come gioco delle parti, gli “orlandiani”; perché questo è l’obiettivo finale, o forse uno dei possibili obiettivi finali che s’intuisce nelle mosse contingenti degli scissionisti di oggi, a Venezia e a Roma, e per il quale obiettivo si deve attraversare il deserto con un partitino del 3%.
Va da sè che per il gruppo locale la scissione è stata un’opzione non totalmente obbligata anche se per loro molto opportuna, nonostante avessero i numeri per continuare, seppure in coabitazione, a governare il partito; mentre per i “rottamati” a livello centrale, senza più numeri, è stata invece una scelta, realmente e senza alternative, obbligata, per tentare dall’esterno un recupero e un qualche riposizionamento con centralità nella sinistra, forse anche un domani nel vecchio partito. Si sono accentuate le ragioni di contenuto per dare credibilità alla scelta scissionista e così nobilitarla, per l’ineleganza che ovviamente avrebbero dimostrato le reali ragioni di fondo, rimaste belle abbottonate e coperte e che attengono invece più prosaicamente solo al potere perso da riacquistare. Ragioni che però chi li conosce bene sa vedere immediatamente. Hanno però dato in questo modo una chance anche al gruppo locale, rafforzando così la strategia di indebolire il più possibile il PD, destrutturandolo in periferia laddove invece al centro il partito strutturalmente teneva come in effetti tiene. In periferia e anche qui a Venezia invece si poteva più facilmente attuare un classico “crepi Sansone con tutti i filistei” per abbandonare a se stesso un partito che, a differenza del livello centrale, senza una reggenza seria e strutturata non sa fare alcunchè. Un calcolo che sta riuscendo perché poi il residuo del PD, appunto, localmente langue esanime, e langue anche a Ca’ Farsetti, in assenza di questa, in fondo, capace classe politica che l’ha diretto nel passato.
Una situazione che dimostra del resto anche i limiti dell’azione renziana sui territori, alla fine lasciati a se stessi senza tentare sostituzione qualificata dei vecchi perché, ormai lo si sa bene, per Renzi contava e conta ancora solo il livello leaderistico centrale. Una logica che poteva pure starci se il livello centrale, con Renzi, avesse sbancato anche sul piano dei consensi e dell’ egemonia. Ricondotto il progetto renziano ad una dimensione che, legge elettorale a parte, deve fare i conti con il suo consueto invalicabile perimetro del 25-30%, perduto qui a livello cittadino un gruppo dirigente oggi fuoriuscito, molto più capace di fare partito in un passato relativamente recente, una situazione così deficitaria a livello locale lascia sospeso un po’ tutto.
In attesa che qualcosa accada.
Sarebbe bene farla accadere presto ‘qualcosa’, pena un’estromissione dalla gestione della città che può perpetuarsi, lasciando la conduzione in esclusiva al fronte oggi avverso anche nei mandati che verranno. E che lo resti, quantomeno in esclusiva, per la città, lo abbiamo ormai capito, non sarà un dato certo positivo. Ciò non basta a farci rimpiangere in senso assoluto il vecchio gruppo fuoriuscito e a farci augurare la loro riconquista del partito o di una egemonia sulla sinistra o sul centro sinistra, vero, anche se solo presunto obiettivo della scissione al di là della cortina fumogena dei contenuti; ma ci dice, questo si, che la politica ha bisogno ancora di quel loro tipo di formazione e di quel loro saper fare squadra. Anche con altri protagonisti, capaci però di apprenderne la lezione.