FRANCO VIANELLO MORO e CARLO RUBINI
Sembra paradossale porsi questa domanda, ma non è del tutto inutile.
Paradossale perché nonostante tutte le traversie, tutte le scissioni, le diaspore, i distinguo alla fine il Partito Democratico è ancora in campo e potrebbe risultare ancora il partito di maggioranza relativa, anche dopo le prossime elezioni politiche della primavera 2018.
Perché anche se è al centro del fuoco incrociato di tutti gli avversari (CentroDestra “unito”, M5S e naturalmente tutti i malpancisti sedicenti di sinistra) oltre che di quasi tutti i media che annusano l’odore della sconfitta, rimane comunque radicato nell’immaginario collettivo di tutti gli elettori che non vogliono abbandonare l’idea che in Italia sia impossibile avviare una seria e profonda stagione di riforme strutturali.
E sono gli stessi elettori, non fisicamente gli stessi, ma idealmente gli stessi che, lasciando pur perdere la tornata elettorale delle fin troppo mitizzate elezioni Europee del 2014 (la notte dei tempi!), si sono ritrovati ad appoggiare la Madre di tutte le riforme quando si è trattato di votare per il Referendum (era solo un anno fa!).
A questi elettori bisogna che il PD torni a parlare in modo chiaro e deciso affrontando di petto, subito dopo la primavera 2018, quella domanda iniziale che proprio per questa ragione non è del tutto inutile: lo vogliamo (ri)costruire un NUOVO partito “democratico”?
Una rifondazione del partito, un PD 2.0 resettato e riproiettato nello schermo di uno scenario nuovo che è necessariamente ‘altro’ rispetto a quell’autosufficienza che il 40% di alcuni anni fa alle europee aveva illuso di poter ottenere presto e in progressione?
E’ indubbio infatti che condizione attuale non può essere procrastinata troppo a lungo. Soprattutto se non si vuole alla fine rimanere confinati dentro quel recinto che, seppure ti dà un evidente e ad oggi ancora determinante peso elettorale attorno al 25/30%, non ti permette di fare un reale salto di qualità tale da ridisegnare gli equilibri politici. Solo un salto di qualità e nuovi equilibri politici ti consentirebbero di conquistare il potere che ti legittimerebbe a produrre quel vasto piano di riforme strutturali indispensabili per un Paese che rischia l’emarginazione nel contesto dei paesi che contano.
E ciò è ancor più urgente Soprattutto dopo la bocciatura improvvida e autolesionista del Referendum Costituzionale da parte di tutte quelle forze che adesso non sanno più come uscire dal pantano proporzionalista e dal bicameralismo (im)perfetto; le stesse che si erano vibratamente opposte alla legge elettorale, collegata a quella modifica costituzionale, che prevedeva un premio di maggioranza consistente. Non eravamo ancora al modello presidenzialista alla francese ma si cercava di dare forza al principio della governabilità (oltre che della rappresentatività). E oggi siamo in una situazione che spinge verso il frazionamento più esasperato delle rappresentanze politiche mandando a farsi benedire ogni possibile prospettiva di stabilità.
Siamo in questa situazione. Con l’aggiunta del paradosso per cui si invocava una Maggioranza (in realtà poi un Governo e un suo presidente) scelta dal Popolo e ci si ritrova nella peggiore delle paludi proporzionaliste e nelle pastoie delle trattative parlamentari stile Prima Repubblica.
L’offerta politica che si impone perciò non può passare attraverso una stantia modalità di veti incrociati tutti interni alla logica del politichese, agli equilibrismi per cui serve una mediazione continua e defatigante su ogni punto programmatico e ancor più su ogni assetto. Il PD risente ancora troppo del suo limite fondativo e nessuno finora è riuscito a superarlo. Nemmeno Renzi con tutta la sua forza e la sua determinazione (rottamazione in primis).
Persa almeno per i tempi medio brevi la possibilità di andare da soli e autosufficienti, un partito riformato e con programmi riformulati deve accettare in modo, come dire, organico e strutturale e attrezzandosi da subito in conseguenza, la logica delle alleanze, possibilmente sufficientemente coerenti e senza giri di valzer ad ogni soffio di vento. Però nelle alleanze il PD deve essere talmente autorevole da dare sempre lui le carte, essere perno irrinunciabile, sole in un sistema di pianeti che non siano in grado di giocare al rialzo su punti programmatici sensibili e soprattutto su posti.
Per superare quel limite che alla fine lo sta logorando e ingabbiando (il PD e anche Renzi). Facendo il gioco degli avversari. Questi non è che stiano benissimo in salute, nonostante la Sicilia! Perché le contraddizioni del CentroDestra sono lì pronte a scoppiare ad ogni stormir di fronda e non basterà il miraggio della conquista del Potere per appianarle. E il M5S è già in fase declinante con quella sua assoluta incapacità di andare oltre la protesta e la sterile autoreferenzialità. Anche se il suo peso sarà ancora (troppo) rilevante almeno per un po’.
Per non parlare dei “sinistri alla sinistra” che in un delirio di frantumazione, pur di testimoniare la propria esistenza a rischio della propria irrilevanza, sono lì che, più di chiunque altro, spingono sul tasto dei distinguo, delle abiure e delle rinunce a 360°.
Poi le urne, in questo scenario di una legge elettorale che premia il proporzionale e solo marginalmente – ma in maniera non irrilevante – il maggioritario, si incaricheranno di definirne il peso politico e la capacità di interdizione che pare al momento esser il loro unico obiettivo strategico.
Per cui si rinvia ad un dopo in cui non si capisce bene in virtù di quale potere taumaturgico delle urne si dovranno fare i conti all’interno dello schieramento di Centro- Sinistra anche se qualcuno pensa, già oggi, di riuscire a ri-comporre alleanze.
Anche se c’è chi si incarica da subito di opporre dei “niet” a tutto tondo.
Come se “le urla e le grida” pronunciate contro il “nemico interno” potessero essere cancellate con un batter di ciglia. In un contesto di campagna elettorale in cui il PD e i suoi alleati di Centro (Lorenzin e company) ma anche di Sinistra (Pisapia e Bonino, auspicabilmente) – questi ultimi con qualche prevedibile mal di pancia – batteranno la gran cassa del “voto utile” per ridurre il danno che la frantumazione a sinistra vuole scientemente provocare anche se, paradossalmente, potesse favorire gli avversari: Centrodestra e/o M5S.
Anti-renzismo ridotto al taffazzismo più spinto.
Allora per darsi una prospettiva di lungo respiro, che non sia soggetta ai troppi condizionamenti e ai troppi giochini dei pesi e contrappesi della politica politicante – a urne chiuse – bisognerà provare a cambiare registro, ma probabilmente anche strumento.
Qui si inserisce un ragionamento di più ampio respiro. Viene opportuno l’esempio di ciò che è avvenuto in Francia con Macron. Lui in pochissimo tempo ha messo in campo un partito nuovo di zecca che non poteva neppure avvalersi di quella sedimentazione nell’opinione pubblica sempre necessaria per accreditarsi. E’ riuscito così a sfidare gli assetti consolidati e la politica stratificata.
Certo lì ha fatto da detonatore il doppio vantaggio prodotto dalla fuoriuscita dal quadro politico di Fillon e contemporaneamente, al ballottaggio, la presenza di Marie Le Pen che i francesi non hanno avuto il minimo dubbio di bocciare.
Ma è indubitabile che Macron ha saputo farsi interprete di un disagio profondo dell’elettorato francese. Innanzitutto, di quello di sinistra (la sua storia politica nasce a fianco di Hollande) ma allargando il campo a quello di centro. E l’ha fatto disegnando, in vista delle elezioni presidenziali, un partito “personale” En Marche” (le sue iniziali) e andando dritto verso una politica di riforme strutturali importanti e “rivoluzionarie” per una cultura politica e sociale che in Francia per molti versi non è meno conservatrice di quella nostrana.
E’ indubbio che la legge elettorale francese con il doppio turno lo ha avvantaggiato, con il combinato disposto di un avversario dichiaratamente di destra spinta ad avvantaggiarlo ancor di più. Quindi quel modello va adattato alla situazione italiana.
Che oggi si muove in un orizzonte molto diverso che è quello delle alleanze, persa l’opportunità di essere un partito autosufficiente che conquista da solo maggioranze stabili.
Il 40% e le alleanze
La nostra abitudine, almeno quella del “popolo” di centrosinistra, è sempre stata quella di un confronto aperto, partecipato – facendoci venire tutti i mal di pancia possibili e immaginabili quando le decisioni sono prese senza quel quid di democrazia reale che contraddistingue la storia, almeno quella più recente, della sinistra italiana.
Perché se invece andiamo un po’ indietro nel tempo nell’ambito della sinistra vigeva la più ferrea decisione centralistica che veniva calata dall’alto e le riunioni dei “caminetti” prendevano il posto della cultura “democratica”.
E allora di alleanze bisognerà parlare, con quali “compagni di strada” e per quali obiettivi.
Alleanze programmatiche prima ancora che ideologiche, considerato che non siamo più appunto in quella fase.
E però se di alleanze si tratta è assolutamente necessario che il PD si metta nelle condizioni di poter dare lui le carte, di essere baricentrico e rappresentare l’unica possibile soluzione stabile. A differenza di Macron, che può permettersi un partito del 24% (e poi sfruttare il ballottaggio della legge elettorale francese) il PD deve fare lo sforzo di riconquistare consensi.
A questo però bisogna che sappia aggiungere quel qualcosa che dia la spinta per aggregare maggiormente quelle parti di elettorato che sono più scettiche, più disincantate, più neutre. Senza star lì a definire se si devono dichiarare di centro o di sinistra. Siamo in una fase post-ideologica.
Per tendere a quel 40% di elettorato che non può rimanere solo una chimera irraggiungibile sapendo confrontarti con quelle alleanze (sociali e civili prima ancora che politiche) che possono fare la differenza. E quelle alleanze le devi costruire prima di tutto su una base programmatica.
I programmi e la narrazione
Un lavoro programmatico molto fitto e chiaro che affronti i nodi strutturali ma che sappia anche parlare concretamente (non solo la narrazione) a tutte quelle frange di cittadini che affrontano le difficoltà quotidiane, nonostante il trend economico del Paese stia dando segni di una ripresa.
Perché questo trend non è ancora percepito dalla maggioranza del Paese che invece sente ancora incombente tutta la fatica e tutte la difficoltà che derivano dalla più lunga crisi economica (prima ancora che finanziaria, che le ha dato la stura) che la storia del “capitalismo moderno” abbia registrato.
Che affronti il nodo delle “periferie”, non solo quelle urbane – in particolare delle grandi città – ma anche quelle della emarginazione latente del Sud. Perché poi quando ti devi confrontare con le scadenze elettorali e contare i voti (i voti non si pesano!) sono centinaia di migliaia i cittadini che devi riuscire ad intercettare prima che si orientino verso un rifiuto alla partecipazione, o verso un voto di protesta.
Una battaglia di cultura civica per una partecipazione consapevole è una questione di democrazia: lavoro lungo ma indispensabile.
Che metta al centro di qualsiasi prospettiva politica l’Europa federata, come obiettivo strategico imprescindibile per ogni opzione di sviluppo dei prossimi lustri a venire. Una battaglia di civiltà, una battaglia culturale, una battaglia dei diritti dei cittadini di tutti quei Paesi europei che vogliono crederci e che su questa idea vogliono spendersi.
Portata prima di tutto nel cuore del Parlamento europeo, nelle stanze della sua Commissione: con chi ci sta. Perché le battaglie ideali per segnare un percorso impegnativo possono anche scontare l’assenza di alcuni. Non è un obbligo fare l’Europa federata con tutti i 27.
Già l’UK se n’è andata a seguito della mai troppo criticata operazione “Brexit”. A malincuore, ma faremo a meno della “perfida Albione”, senza drammi.
La forma e la partecipazione
Un lavoro politico e programmatico che sappia parlare chiaro anche su tutta la questione della trasparenza, che sappia individuare le persone che meglio di tutte ne siano interpreti e che non siano pregiudizialmente sospettate di appartenenza a un qualsiasi “Giglio”.
La rigidità di una struttura (il partito) può essere da freno e spesso nelle vischiose liturgie organizzative lo è. Il fatto è che il PD dovrebbe prendere atto – e strutturarsi di conseguenza – di ciò che è già oggi la realtà nel modo (resistente?) in cui si cerca di esprimere politica.
Al primo cerchio degli iscritti, ma ‘veri’ e non virtuali con tessera, andrebbe allora aggiunto stabilmente, con una qualche forma di riconoscimento – al di là delle Primarie – un cerchio ampio di non iscritti, elettori più o meno critici, ma propositivi con competenze, a cui aggiungere risorse umane anche individuali da spendere su singoli punti e su temi specifici.
Una rete da monitorare continuamente in una situazione come la nostra che è di fatto reticolare.
Solo così si può pensare che il modello del Partito “personale” – il leaderismo è dei giorni nostri ed è inutile oltre che controproducente far finta che se ne possa far a meno – non diventa una dittatura morbida ma si rende funzionale ad un disegno di progresso e di innovazione del Paese.