Se c’è una cosa che urta i nervi dei quarantenni/cinquantenni di oggi, è la mitizzazione del sessantotto che fanno i sessantenni/settantenni di oggi, la generazione precedente alla loro e a cui per dato anagrafico ho l’avventura di appartenere. Una mitizzazione che riprende vigore quando scatta un anniversario multidecennale, e il prossimo anno sono cinquanta, mezzo secolo, di questi tempi un’eternità, anche se sembra ieri.
Non tutti mitizzano, ma molti si. Chi apertamente, che privatamente, chi solo in cuor suo. Io, lo confesso, ho mitizzato, convinto, nel passato anche apertamente e ora invece evito di mitizzare o anche semplicemente di celebrare.
Posso capire infatti questo fastidio che provano i nostri fratelli minori, che poi non è che abbiano un abisso di anni meno di noi numericamente parlando. E’ che loro sono stati giovani negli anni ottanta, quelli in Italia di ‘Drive in’ per capirci, ed è detto tutto per marcare la differenza generazionale; non necessariamente differenza in peggio ma differenza di umori, di sentire comune e identitaria questo si. Però il fastidio per questo rituale e stucchevole orgoglio sessantottino lo capisco. Infatti più o meno, quello che da loro ci viene detto brutalmente è : “la vostra generazione con il sessantotto ha perso di brutto e avete prodotto meno di niente, cosa state a menarla ancora con ‘sto sessantotto”.
Vero, sacrosanto. Oggi, a mezzo secolo di distanza, celebrare sarebbe patetico, ma ho ugualmente una risposta pronta per l’insofferente generazione successiva alla mia. “Amici miei – risponderei – avete tutte le ragioni, ma noi e voi non abbiamo ancora fatto i conti veramente con quegli anni e con quella ipotetica sconfitta, posto che di sconfitta si sia trattato, tutto qui. Ad ogni decennale si celebrava per abitudine, in modo a volte scomposto a volte goffamente retorico (ricordo perfettamente il decennale, troppo vicini i fatti). Ora non si tratta più di celebrare ma di cercare, sempre e ancora, di capire, di storicizzare per rendere alla storia il suo ruolo ‘magistrale’ per il presente e per il futuro. Noi non abbiamo prodotto niente come generazione perchè è la storia semmai ad aver prodotto attraverso di noi inconsapevoli. E, per venire a qualcosa che vi tocca più da vicino, fratellini, abbiamo fatto ancor meno i conti con il quasi trentennio che ci separa dall’89; data simbolo non solo di un crollo ma anche di una rivoluzione, tecnologica ed economica insieme, sconvolgente, figli legittimi l’uno e l’altra del lungo periodo pre e post sessantotto. Il mondo è cambiato in questi sessant’anni due volte radicalmente e per sempre, la seconda volta, quella di cui anche voi siete stati testimoni diretti, in linea continua con la prima; e non si capisce la seconda, quella dall’ ’89 ad oggi e che è anche vostra, soprattutto vostra, se non si rilegge una volta di più la prima, quella cominciata sul finire del secondo dopoguerra. E se una cifra tonda (e però è un cinquantennale, quello che cadrà tra qualche mese per il sessantotto, mica niente) serve a far aumentare l’attenzione, ben venga se si approfitta una volta di più di una maggiore audience per andare a fondo, fare un bilancio per cercare di capire la nostra contemporaneità e il futuro che ci aspetta.”
Questo risponderei. Proviamo a riparlarne allora in modo non rituale e utile per capire chi siamo e dove andiamo. Meglio. Per cercare di capire chi siamo e dove andiamo, perchè il risultato non è garantito. Questo articolo che mi appresto a scrivere sarà allora un bel mattone piuttosto lungo per essere un articolo e metto le mani avanti, perchè la complessità del discorso richiedeva una certa dimensione. Lo dico in anticipo, interpolando questo avvertimento con il testo già scritto e che appunto mi è venuto piuttosto corposo. Chi ha voglia di leggere legga. Se no passi serenamente ad altro.
Quell’8 ottobre del 1967, quando i giornali riportavano con grande risalto la morte, l’assassinio, di Ernesto Guevara detto “Che”, me lo ricordo bene. Per molti di noi, per me di sicuro, era morto Guevara e sapemmo solo lì e solo in quel momento che era vissuto, perchè, almeno io, non avevo saputo mai niente di lui, ne avevo ignorato l’esistenza fino al momento della sua morte (“morì Lorca e sapemmo che era vissuto” dicono i versi di un poeta di settant’anni fa). Nello spazio antistante il mio liceo, il “Carducci” di Milano, all’entrata alle 8 di mattina, circolavano i giornali con il titolo in prima pagina. Un flash di memoria mi fa vedere la prima pagina dell’Unità e la foto del Che cadavere, può essere che fosse quella che è poi circolata universalmente per tutti questi anni. Avevo 15 anni e andavo per 16 di lì a qualche mese, ma non si pensi ai 15-16 anni di oggi, allora erano già qualcosa e la società attorno dava a quell’età un’importanza, nel bene e nel male, che poi ho sempre valutato come sproporzionata.
Molto tempo dopo ho riflettuto sul valore simbolico di quella morte e ho concluso che effettivamente quell’autunno del ’67 è stata in qualche modo una data spartiacque, e quell’evento in ottobre ha un valore simbolico. Per la prima volta in maniera evidente nel grande movimento giovanile e studentesco, che teneva il campo ormai da qualche anno, si innestava la cultura del terzomondismo rivoluzionario, già preannunciata, ma con una presa ancora limitata in Europa, dalla rivoluzione culturale maoista risalente all’anno prima. E, a sua volta, il terzomondismo rivoluzionario si era acculturato con un estremismo di matrice marxista leninista trotskista, rafforzato appunto dal maoismo, filoni assenti, o meglio presenti ma sommersi, nel presessantotto. O comunque minoritari in tutti i movimenti studenteschi e giovanili, fino a quel momento trasversali, non violenti, semmai pacifisti e sicuramente non etichettabili come fenomeno di ‘sinistra’; definizione che i protagonisti dei movimenti, nella loro stragrande maggioranza, leader compresi, sia ben chiaro solo fino a quel momento, intendo fino al ‘66-’67, non avevano mai usato per identificare se stessi ( c’è in questo, ma solo in questo, un’analogia notevole con l’attuale movimento 5 Stelle italiano, effettivamente trasversale alle categorie storiche). Per ciò, quantomeno simbolicamente, la morte del Che, certo non solo quella, ha diviso in due parti abbastanza distinte il lungo venticinquennio che andrebbe denominato come ‘sessantotto lungo’.
Sessantotto lungo? E che cos’è?
Vediamo.
Noi abbiamo sempre in mente quell’anno, il sessantotto cronologico, ma in realtà quell’anno si è segnalato per l’esplosione, per la prima volta anche violenta rispetto agli anni precedenti, con caratteri che oggi si direbbero ‘antagonistici’, di un composito movimento, soprattutto giovanile, molto studentesco e universitario, con dimensione persino planetaria; un movimento che non era che lo sbocco in parte non voluto, comunque non previsto (eterogenesi dei fini, o degli esiti, si potrebbe dire) di un ancor più ampio sommovimento economico, sociale e culturale. Era cominciato, almeno in Italia, dieci anni prima, nel ’58, e continuato poi per altri quindici anni successivi al ‘67/’68 appunto con caratteristiche molto diverse dal precedente quello della prima fase; anni finali in cui, attraverso i postumi di quel sommovimento-movimento, si porta a compimento qualche importante risultato di democrazia civile e, come ben si sa, contestualmente a molte involuzioni, molti fallimenti e tragici eventi di brutale violenza. Per concludersi definitivamente con i postumi del primo terrorismo politico e la sua sconfitta, almeno momentanea, nell’83 (mi pare di ricordare che fosse l’anno dell’ultimo rapimento significativo e senza sangue, non più ormai con le BR, ma con altre formazioni, quello di Dozier, a Padova, una delle città ombelicali nel bene e nel male di tutta questa lunga fase). Di mezzo, dal ’58 all’ ’83, c’è un numero d’anni, venticinque, che fanno una generazione. C’è da pensare. Ed ecco perchè è tutto un ciclo generazionale di venticinque anni a poter complessivamente fregiarsi del numero dell’anno, sessantotto, che è rimasto nell’immaginario come quello della contestazione globale, mentre ne è solo un momento per quanto rilevante e, soprattutto, appariscente.
E’ accaduto che dal ’58 al ’67, nella prima fase del venticinquennio, irrompe la modernità, quella vera e anche cruda con le sue contraddizioni, figlia di un boom economico senza pari, e le date citate, soprattutto quella di inizio (’58), sono ormai storicamente accertate come quelle che definiscono il periodo sul piano economico-produttivo, statistiche alla mano, con in seguito una prima crisi nel ‘63. Irrompe la modernità quantomeno In Italia, dove si scardinano gli equilibri secolari di un paese ancora in buona parte fino a quel momento, diciamolo pure, arcaico nelle strutture economiche e sociali e di conseguenza nel modo di pensare, nei comportamenti, nella morale comune; ma irrompe anche nel resto del mondo. In quello più avanzato, e da più tempo disinibito, complessivamente meno arcaico- ma si pensi alla puritana società americana ancora nei primi sessanta -, bisogna ugualmente aspettare gli stessi anni, perché sono quelli in cui c’è la prima vera planetarizzazione del commercio, un’anteprima di globalizzazione – ancora e sempre l’economia dunque – a dare la spallata al vecchio mondo. E nel resto del pianeta per altri rivoli arriva quel vento, nonostante la permanenza di un sottosviluppo che, con apparente paradosso, si accentua.
Molto semplicemente la società di allora non poteva più reggersi sulla solidità di convenzioni, regole, forme e richiedeva una sola cosa: libertà e soggettività, poi, ma molto dopo, anche uguaglianza, sicuramente molto male interpretata, in seguito tradotta al ribasso come ‘livellamento’. Non richiedeva forse fraternità: questa è una nuova dimensione aggiunta e riscoperta, figlia, come era già accaduto, di un’esigenza di maggior libertà scandita e rivendicata in gruppo allargato; dove il gruppo allargato è la nuova generazione giovanile che si sente, a torto o a ragione, protagonista e soggetto di un cambiamento coniugato al presente: E’ infatti una fraternità subito praticata come utopia al presente e che trasversalmente diventa generazionale per superare e scardinare le vecchie appartenenze sociali, tacciate di individualismo familista e ‘borghese’, come, con qualche ragione, si diceva allora. Fraternità e non solidarietà, termine questo in uso molto dopo e che evoca un rapporto di aiuto e sostegno, in ‘solido’ appunto, a chi ne ha bisogno; la fraternità praticata allora, ripeto al presente, era semmai una solidarietà alla pari, non necessariamente tra bisognosi, e piuttosto fraternità come coralità anche nel piacere dell’essere insieme , o nel piacere tout court, e nell’impegno sociale e politico, un ‘gioco corale’, un essere insieme nella soggettività, una soggettività collettiva, quasi un gioco di parole ma specchio esatto del fenomeno sul piano sociale e culturale (alcuni dei protagonisti non se ne rendevano conto, ma la ‘scoperta’ e l’uso della droga, per esempio, veniva concepito come funzionale a questa ‘fraternità corale’).
Libertà, fraternità, uguaglianza: ci dicono niente queste parole? E si, la talpa della vecchia Rivoluzione dell‘89 francese, quella vera, aveva continuato a scavare attendendo il tempo propizio per riemergere alla luce e cercare di prendersi una definitiva rivincita. La modernità diventa sempre una necessità, è figlia dei mutamenti economici e richiede cambiamenti di valore e culturali. E la modernità ha anche una versione politica e sociale. L’esigenza spinta di allargare e diffondere la democrazia stessa e gli spazi di libertà vanno in parte spogliati dell’alone nobile e ideale che mantengono nell’immaginario comune e vanno ricondotti prima di tutto più prosaicamente a una necessità storica della modernità, come era accaduto per le rivoluzioni borghesi di due, tre secoli prima e con l’abolizione dello schiavismo in America. E’ questa una lettura che si direbbe troppo strutturalistica? Può esserlo, a seconda di come la sia accentui, ma è comunque una lettura ineludibile se si vuol cercare di capire, aggiungendoci, certo, altri importanti fattori non solo ‘strutturali’.
Ma andiamo con ordine.
Per tutta la prima metà degli anni ’60 i movimenti di contestazione del vecchio mondo si muovono con queste parole d’ordine, libertà, uguaglianza, fraternità in un mix difficile da separare, ma con una netta preminenza della prima e dell’ultima delle tre. Le si direbbe più figlie del liberalismo che del socialismo o del marxismo, se no non si spiega come mai avessero avuto poi uno sbocco non da poco, politico e sociale insieme, e sempre nel ’68, anche nell’est europeo oltrecortina, in Cecoslovacchia, ‘contro’ un sistema politico di impronta comunista e collettivista, autoritario e illiberale perché comunista e collettivista.
Si può leggere in filigrana, e aiuta molto a capire, anche quello che avveniva contemporaneamente nella Chiesa Cattolica, il baluardo più roccioso del vecchio mondo. Nel ’58 (sempre quell’anno, come primo inizio) morto Pio XII diventava Papa Angelo Roncalli, Patriarca di Venezia, il Papa della svolta conciliare. Un’apparente continuità, la sua, con Pio XII diventava da subito una discontinuità netta, anche nei modi: austero, monarca e aristocratico il primo, semplice, diretto e popolare il secondo. Neppure un anno dopo, nel ’59, l’annuncio, e nel ’62, l’apertura del Concilio Vaticano II. Il tutto accompagnato da Encicliche di grande impatto sociale e politico, come la ‘Pacem In Terris’ e la ‘Mater et Magistra’. I temi di fondo sono noti come le conseguenze: Il Concilio aveva aperto le cateratte in un mondo cattolico rimasto a lungo silente, obbediente e compresso, ma nel sommerso già in una sua parte rilevante portatore dell’esigenza di una nuova ecclesiologia, adeguata al mondo in veloce mutamento ( Nel ’58, stesso anno di Roncalli Papa, guarda caso, iniziano le pubblicazioni di Riviste come Testimonianze a Firenze e Questitalia a Venezia, espressioni tra le più qualificate del mondo cattolico democratico).
Il Concilio comincia nel ’63 e si conclude nel ’65 e subito si parla di ‘post concilio’. Ne esce una Chiesa profondamente riformata, nelle forme di partecipazione, in una nuova centralità della parola evangelica, aperta a molte delle istanze che nella società si stavano facendo largo e sopra ricordate, una Chiesa in parte, solo in parte, de-sacralizzata e democaraticizzata. L’impatto sulle generazioni più giovani che contemporaneamente vivevano i fermenti sociali sarà notevole e predisporrà a quell’apertura verso culture politiche diverse che più tardi, nel vivo delle lotte operaie e studentesche, sfoceranno in un sincretismo ideologico piuttosto lontano dalle premesse libertarie di partenza, ciò che andrà sotto il nome di ‘dissenso cattolico’; e che si ritorcerà verso la stessa Chiesa Conciliare, accusata subito di tradimento del Concilio. Paradossalmente, ma fino a un certo punto, il mix cultural politico del cattolicesimo critico avverrà maggiormente, ma più avanti proprio nel post sessantotto, con un certo radicalismo marxista piuttosto che con la cultura liberale storica; che, come già detto, non era riuscita a dire alcunchè nel fermento libertario della prima fase; il quale avrebbe dovuto appartenerle per evidente affinità, ma la cultura liberale storica era ritenuta nel complesso una cultura comunque poco credibile per la subordinazione ideologica, almeno in Italia, al centrismo clericale democristiano e di fatto quindi ignorata, neppure presa in considerazione dai nuovi giovani e di conseguenza anche dai nuovi giovani di matrice cattolica. C’era stata in verità nel mondo cattolico la predisposizione ad una confluenza successiva nel marxismo eterodosso già nel pre sessantotto, negli anni che lo hanno immediatamente preceduto. Un tema tipicamente conciliare è stato infatti sicuramente quello della riscoperta della “Chiesa dei poveri” legata, come è facile intendere, ad un carattere ben evidente del messaggio cristiano che le chiese e le gerarchie preconciliari avevano tenuto a lungo sotto traccia per la loro connivenza dichiarata con le classi al potere, garanti a loro volta del potere ecclesiastico in un connubio di reciproca utilità. Non era ancora una lettura ‘di classe’ del Cristianesimo, ma sicuramente una scelta comunque socialmente ben precisa. E in ogni caso così quel messaggio veniva interpretato. Ne erano conseguite tutta una serie di espressioni e di manifestazioni da parte di gruppi cristiani, ancora nelle Parrocchie e nelle Istituzioni, che finivano con il denunciare con decisione tutte le ostentazioni di ricchezza che negli anni sessanta emergeva evidente attraverso gli ‘status simbol’ di un ceto ben preciso, in una condizione in cui stavano recrudescendo le condizioni di sfruttamento delle classi subalterne, specie dei nuovi operai-massa, nella fase di una prima consistente crisi seguita al grande boom economico; che paraltro manteneva ancora sacche di povertà e di marginalità anche nelle campagne e nelle zone più rurali e periferiche ( In questo tipo di zone e su questa linea è la testimonianza vibrante di una scelta netta per i ‘poveri’ da parte della figura simbolo del sacerdote cattolico Don Milani). E se dunque anche il pre sessantotto si stava un pò alla volta già caricando di contenuti sociali che si andavano affiancando a quelli più libertari dell’esordio lo si deve sicuramente a questa componente cattolica, che tuttavia manteneva il carattere non violento della prima fase, confermandone la fisionomia pacifista e libertaria già delineata (e l’azione di Don Milani ha anche questo carattere, radicale e non violento insieme).
Sia come sia la riforma cattolica post conciliare andava a regime abbastanza presto, ma con una conduzione dall’alto che non rinunciava al magistero e a molti caposaldi dell’etica cattolica soprattutto nella sfera personale e nella morale, in materia sessuale e familiare ( basterebbe questo per l’accusa di tradimento da parte del ‘dissenso cattolico’, che tuttavia centrava l’accusa molto di più sul ‘tradimento’ politico sociale, in realtà il meno imputabile e per il quale erano stati fatti molti più passi in avanti). C’è chi, già in contemporanea o poco dopo, cosa non facile in assenza di una retrospettiva storica in quel momento, era stato in grado di leggere, al di là delle molte azioni innovative, qual’ era stato il senso e il ruolo storico del Concilio e della Chiesa conciliare. Penso soprattutto alla già citata rivista Questitalia e al suo direttore-fondatore Wladimiro Dorigo. Per la Chiesa, secondo questa attenta e disincantata lettura, si era trattato, attraverso il Concilio e i suoi postumi, di un necessario aggiornamento, un necessario adeguamento alla modernità, un mettersi addosso una necessaria patina di modernità, per non restare tagliati fuori e non essere abbandonati di netto da masse consistenti, predisposte a farlo se la rigidità dottrinale, almeno in campo sociale ( quello che poi fu non a caso il più dottrinalmente ‘riformato’) si fosse mantenuta tal quale un secolo prima; un rischio inconsciamente calcolato, non sembri una contraddizione, quello di dare la stura ad energie innovative ma potenzialmente incontrollabili, ma un rischio che per la Chiesa andava corso per cercare in qualche modo di restare socialmente e culturalmente baricentrica e non marginalizzata dal fluire della storia stessa. Il disincantato Dorigo, nel primo numero del ’67 della sua rivista, non esitava a definire come “Restaurazione aggiornata” la Chiesa post conciliare di Paolo VI. Il Concilio e il post Concilio come necessario ‘aggiornamento’. Ed è detto tutto.
Come si vede, anche osservando l’evoluzione e la inaspettata apertura della Chiesa Cattolica, si torna da dove si era partiti più in generale per la società intera: il fermento libertario pre-sessantotto era stato contrassegnato da tutti i caratteri libertari e soggettivistici citati, perché la modernità imponeva, giungendo persino nella conservatrice Chiesa Cattolica, uno stile e un assetto sociale più aperto, disinvolto, più informale, meno rigido nella morale, con la democrazia e la partecipazione, anche internamente alle strutture dei cosiddetti ‘corpi intermedi’, ad essere reclamate per necessità intrinseche alla dinamica sociale. E la necessità, siamo sempre lì, era dettata da un impulso economico e consumistico senza pari. E non si valuti il consumo di beni solo come un insulso appiattimento materialista, ciò che in parte sono pure stati, perchè i beni di consumo hanno costituito anche veicolo di promozione sociale, elemento questo che sempre accompagna la modernità.
Questo nella Chiesa. Poi, più in generale, come già detto una volta innescato il detonatore libertario, nella lunga fase di incubazione dei ‘sessanta’… beh le schegge, come in tutte le esplosioni, vanno in ogni direzione e in parti opposte tra loro, soprattutto opposte tra loro. Ecco perchè le derive del ‘sessantotto lungo’ ci appaiono approdate a conseguenze così radicalmente diverse tra di loro, ‘opposte’ appunto. In psicologia lo si interpreterebbe come un ‘ritorno del represso’ che scatena un’energia, anche incontrollata, tanto quanto la stessa energia era stata compressa e l’immagine dell’esplosione rende bene a parer mio l’idea di qualcosa che poi getta con forza la materia dappertutto a 360° in direzioni opposte.
La ribellione di fondo che dominava in quegli anni, specie nella prima fase, era stata priva di una disciplina teorica: la Chiesa, quant’anche quella conciliare, rimaneva troppo conservatrice per poter incidere o provare ad egemonizzare il fenomeno, che non le apparteneva, limitandosi ad un autoaggiornamento; il pensiero liberale, come già detto, si era adagiato sulla vecchia destra liberale italiana capace di compromettersi anche con il diavolo (l’ultimo rivoluzionario e innovatore liberale era astato Piero Gobetti massacrato di botte dal fascismo mezzo secolo prima). Ecco dunque l’impianto marxista nella versione del leninismo e del maoismo, che hanno nella ribellione la miccia della loro strutturata teoria, ‘zompare’ sul movimento ed egemonizzarlo; perché era un impianto con un bagaglio dottrinale attrezzato ideologicamente, l’unico realmente attrezzato, già collaudato a livello mondiale anche nelle versioni eterodosse, quelle più adatte ai movimenti e già sperimentate nei movimenti di liberazione. Alle eresie marxiste dissidenti dall’esperienza sovietica, ma dissidenti-estremiste, adatte perciò a un nuovo moralismo di matrice quasi religiosa, carsiche per tutti gli anni sessanta, dominate fino ad allora dal comunismo ufficiale, gli si offre su un piatto d’argento una possibilità unica, quella di cavalcare un fenomeno mondiale; e non se lo lasciano scappare anche come riscatto da una lunga minorità, non se lo lasciano scappare, nonostante il settarismo intrinseco nelle applicazioni, quanto meno europee e dovuto alla rigidità dottrinale, impedisca loro, per fortuna oggi si potrebbe dire, di coordinarsi per generare fenomeni di massa e frastagliandosi perciò in un variegato fenomeno ‘gruppuscolare’.
Ciò che avviene nel Terzo Mondo, maoismo, guevarismo e castrismo, dà comunque una mano. Il pacifismo era stata la cifra del movimento nei sessanta pre-sessantotto, e viene di fatto rinnegato: in quegli anni l’imputato numero uno erano gli USA e quindi anche qui si trova un terreno favorevole per convertire il pacifismo in lotta ( mica tanto pacifica) all’imperialismo americano e occidentale in genere. Tutto si tiene. Le lotte operaie fanno il resto. In definitiva quel movimento era nato nei primi sessanta come libertario, pacifista, universalista, fraternizzante (quindi ben al di là della lotta di classe, tutt’altro che fraternizzante in modo indifferenziato), e non a caso, culturalmente parlando, la dirompente nuova musica, in seguito nella seconda fase ‘post’ rinnegata come fenomeno borghese, nella prima fase ‘pre’ era stata il veicolo principale. Poi infatti, proprio a partire dal ‘sessantotto-anno-solare’ in avanti, quello cronologico vero, l’acculturazione successiva da parte del neo marxismo ingabbia una buona parte di quel movimento. E’ il momento in cui il mondo degli intellettuali dà una mano anche quello, in tempi in cui intelighenzia e sinistra radicale erano in simbiosi ideologica, un binomio capace di rafforzare anche teoricamente la dottrina (non si dimentichi la ‘Scuola di Francoforte e i libri di Marcuse, che pur scritti anni prima diventano poi una dottrina teorica diffusa solo nel ’68). E’ una contraddizione il fatto che un movimento nato dalla spinta della modernità, a sua volta spinta da una esplosione consumistica senza pari da parte del capitalismo mondiale, finisca poi per avere come nemico principale il capitalismo mondiale che l’ha generato? Certo che lo è, ma i protagonisti ignari non se ne rendevano minimamente conto; o, se lo capivano, e i più accorti lo capivano, rimuovevano gli esordi libertari e modernizzanti, per sposare una cultura truce, fatta di dogmi, riti, costruzioni ideologiche dove l’uso della violenza e della forza diventava un diritto senza contraddittorio (“….scendete giù in piazza, picchiate con quello” cantava serenamente il menestrello Pietrangeli). D’altra parte anche il capitalismo rampante in quella prima fase viveva di un’altra palese contraddizione del tutto simmetrica alla precedente, arroccandosi, per sentirsi più garantito, proprio su quei caposaldi rigidi, gerarchici e conservatori della vecchia società che fornivano culturalmente un impedimento alla propria espansione consumistica e che verranno spazzati via anche per questo.
Certo poi le schegge impazzite vanno da tutte le parti e alcune, come già detto, sono schegge buone. Gli anni settanta sono anche gli anni dei diritti civili, dello svecchiamento giuridico legato agli assetti sociali. Se noi oggi abbiamo una società aperta, con maggiori garanzie e tutele, ma anche informale, decisamente più laica e secolarizzata di prima, lo dobbiamo a quella seconda fase, che recuperava l’anima migliore della prima, quella libertaria. In contemporanea tuttavia con le peggior schegge impazzite che sappiam bene quali sono state.
Nel mondo cattolico lo scavo antropolgico e sociale immesso dal Concilio che autorizzava l’apertura a diverse culture politiche e di fatto autorizzava il pluralismo, dà i suoi frutti alla lunga, forse ben oltre quegli anni, perché ci vorrà il decennio successivo per la fine dell’unità politica dei cattolici; ma poi i suoi frutti li dà. La laicità anche nel mondo cattolico, o per una sua parte considerevole, diviene una cultura prioritaria, manifestatasi pienamente con i referendum sul divorzio e sull’aborto. Certo, negli ottanta-novanta la Chiesa di Wojtyła si riorganizza in modo conservatore da una parte, dall’altra il dogmatismo di stampo ‘talebano’ di certo cristianesimo radicale si sposa bene con la vulgata marxista nella versione radicale e rivoluzionaria e ne esce quel sincretismo ideologico e altrettanto dogmatico che fu il cattocomunismo, da cui non fu esente a livello mondiale anche la cosiddetta teologia della liberazione: due facce della stessa medaglia, reazione Wojtyłiana e cattocomunismo, impostate dalla medesima cultura di fondo, che, pur interpretata in modi diametralmente opposti, è quella del Cattolicesimo Romano.
In definitiva si può dire che il sessantotto, non l’anno, ma il movimento pluridecennale cifrato dall’anno, quel sessantotto che è pre-sessantotto, come lo ricordiamo noi, libertario, antiautoritario, inclusìvo, fraternizzante, planetario, trasversale e non classista, per certi aspetti moriva l’anno prima nel ‘67, rinascendo con un’altra cultura molto più antagonista, violenta e di parte, simboleggiata in qualche modo anche dal martirio del castrista e comunista ‘Che’ che paradossalmente ne amplificava la portata anzichè reprimerla; e quindi moriva forse, quel sessantotto, prima ancora di iniziare come mero anno cronologico. Carsicamente è riapparso nei settanta, in parallelo al peggiore, dando qualche buon frutto di riforma civile. Nel complesso non si è trattato di una rivoluzione politica, in Europa men che meno, e su questo hanno abbastanza ragione i nostri fratelli minori a dire che non s’è portato a casa niente. Ma niente s’è portato a casa sul piano strettamente politico. Si è trattato piuttosto di una sconvolgente rivoluzione nei costumi, sociale e culturale che, più ancora che di un’improbabile rivoluzione politica mai neppure iniziata, ha cambiato lo stesso il mondo e ha immesso nuovi valori duraturi e da cui non si torna indietro. E ha immesso anche disvalori, altre schegge impazzite di un periodo storico che veramente ha presentato tutto il possibile campionario, anche in negativo, delle nuove possibilità sociali e culturali.
E il campionario doveva essere ben ampio se da quel venticinquennio sono usciti, tanto per citare solo due aspetti, sia un cattocomunismo moralista e giustizialista e sia il diffondersi in seguito di un edonismo consumistico individualistico spinto, che è appunto un suo opposto e che costituisce una delle derive che per inerzia si sono mantenute fino ad oggi ( e l’esplodere del tema ‘droga’ ne è una delle molte conseguenze molto lontane dalla pur altrettanto discutibile intenzione dei primi utilizzi di massa di queste sostanze). Edonismo individualistico come residuo e come evoluzione involontaria – e però anche questa figlia a modo suo legittima – di quella’ liberazione’ che era stata caparbiamente cercata su un piano ben più alto, quello della soggettività. Ma anche questo non è poi così paradossale, se si pensa al fatto che è stata una prima esplosione dei consumi, con i suoi disvalori impliciti sin dalla prima ora, a innescare il processo di modernizzazione. E’ un disvalore con cui fare i conti ancor oggi e che ancor oggi può essere ancora combattuto come allora con le stesse armi di prima. Una ricerca mai finita di libertà ‘altra’, più autentica può ancora combattere con le stesse armi una malintesa idea di libertà. Che convive con quella ‘altra’. Ciò che resta oggi di quella ‘altra’, rinata allora, è una società più aperta, più informale, più disponibile al cambiamento se solo gli si dà un senso, più laica, meno rigida nei dogmi; nonostante il denaro e il successo si prestino ad essere nuovi dogmi, insidiosi perché occulti e non dichiarati. E’ in definitiva una società veramente ‘liquida’ (per dirla alla Bauman, coniatore del termine e del suo senso), dal momento che la rivoluzione culturale di quel venticinquennio è stata enormemente amplificata in seguito, e in piena continuità, dalla globalizzazione economica e dalla rivoluzione tecnologica. Una liquidità, quella odierna, da una parte pericolosa perchè si presta ad essere un ‘ecosistema’ senza protezioni nei confronti della volontà di dominio delle logiche più perverse dell’economia (E qui assecondo Bauman che metteva in guardia soprattutto da questo pericolo); ma dall’altra anche un ‘ecosistema’ ( e qui lo assecondo di meno) che offre molte più possibilità di prima ai cambiamenti sociali più virtuosi. L’uno e l’altro: pericolo di dominio economico e potenzialità di progresso soprattutto sociale , come lo erano stati, l’uno e l’altro, mezzo secolo prima.
L’ubriacatura ideologica di quegli anni lontani, soprattutto nella loro seconda fase, da una parte e la deriva edonistico individualista dall’altra hanno in effetti oscurato il grande valore di un cambiamento epocale, che non è avvenuto per merito della generazione del venticinquennio del ‘sessantotto lungo’, un merito che i reduci, o meglio certi reduci, si sono attribuiti in modo autoreferenziale. Quella generazione è stata solamente la portatrice sana e forse anche piuttosto inconsapevole di un gigantesco processo di modernizzazione che il mondo ha attraversato nella seconda metà del secolo scorso e che è montato sulle spalle di adolescenti imberbi e di giovani adulti, gli ‘sherpa’ inconsapevoli di quel virus e di quella storia, che si è immessa in linea diretta a quella che ha poi viaggiato sul silicio e sull’elettronica, con tutto ciò che ha comportato nei cambiamenti epocali nell’economia e nella società.
Una storia fatta di esaltanti momenti corali e collettivi, ma anche di molte solitudini, soprattutto nella seconda fase, quella del riflusso, quando, rintronati dall’eco di troppi slogan, ci si ritrovava da soli a fare i conti con le emozioni e con le storie personali di ciascuno, amori, sentimenti, sogni infranti e nuovi sogni da effettuare, in una società in continua evoluzione sempre difficilissima da decifrare.
POST SCRIPTUM
A proposito delle ultime righe del mio lungo articolo, mi sono sempre chiesto chi e come è riuscito a rappresentare nelle espressioni artistiche, che sono lo specchio del mondo, il ‘doppio fondo’ di quegli anni e della loro deriva progressiva fino ad oggi; il ‘doppio fondo’ con i movimenti sociali e politici sopra in uno strato e i soggetti con le loro storie personali sotto quello strato, a soffrire e a cercare in qualche modo di vivere anche in autonomia dallo strato di sopra. L’arte, la letteratura, il teatro e il cinema per esempio, da quei sessanta in poi, non sono riusciti a parer mio a produrre testimonianze realmente significative del rapporto tra soggetto e storia, delle solitudini di fronte ai processi in corso; come era accaduto notevolmente, pur in modo molto diverso tra loro, per i classici della letteratura ottocentesca e poi del decadentismo novecentesco, o come era accaduto con il cinema e con la letteratura del dopoguerra e del neorealismo. Con un’eccezione tutta italiana che ci è invece riuscita e che, non sarà un caso, fa ancora difficoltà ad essere accettata tra più paludate arti maggiori. E mi riferisco all’esperienza cantautorale italiana, unica nel suo genere in Europa, che ci ha accompagnato come colonna sonora e con parole in musica per sessant’anni fino ad oggi. Lì si troverà, nei testi poetici e nelle suggestioni musicali e canore in un insieme inscindibile con le parole, attraverso un’eccezionale liricità, la testimonianza di come ogni nostra individualità si è rapportata al reale e al fluire della storia. Un ‘file rouge’ che unisce i tempi lontani ai tempi vicini, fatto di tante storie cantate, credibili o comunque possibili, in cui riconoscersi allo specchio; lo specchio dei tempi, in cui l’esserci stati, ieri come oggi intendo, l’ho sempre considerato un dono da tenermi stretto.
POST POST SCRIPTUM
E’ stato forse per la capacità cantautorale italiana di andare a sondare il fondo dell’anima individuale e personale, narrandone in musica le storie sullo sfondo della storia, che gli untorelli epigoni del più truce e del più ideologico sessantotto in più di un’occasione hanno contestato questi autori cantanti durante i loro concerti: contraddicevano candidamente la massificazione del loro pensiero, se così si può chiamare.

Carlo Rubini (Venezia 1952) è stato docente di geografia a Venezia presso l’istituto superiore Algarotti fino al congedo nel 2016. Giornalista Pubblicista, iscritto all’albo regionale del Veneto e scrittore di saggi geografici, ambientali e di cultura del territorio, è Direttore Responsabile anche della rivista Trimestrale Esodo.