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Ho preso in mano con una certa curiosità il libro di Claudio Madricardo “Democrazia Indivisa”, edito da Ytali e uscito alle stampe poche settimane fa.

Già scorrendo la sinossi sul retro per me si è trattato di una non prevista ri-immersione in un passato lontano a cui tutta una generazione, la mia, quella di poco precedente e di poco successiva, non può dirsi indifferente. Perché quegli anni sono e restano – e lo dico con un filo di emozione – radici comuni, anche se poi – ed è capitato – i percorsi di vita e le scelte politiche si sono diversificate.

L’oggetto attorno a cui ruota il testo è la vicenda, nazionale, ma qui incentrata soprattutto a Venezia, del movimento interno alla Guardia di Finanza tra il 1976 e il 1978, primariamente per la smilitarizzazione e la sindacalizzazione del corpo.

Al di là degli obiettivi, che in buona parte fallirono, si trattava per i protagonisti del movimento di riacquistare con forza una dignità fino ad allora negata all’interno di un corpo che, come gli altri corpi di Polizia, era ancora in quel momento organizzato secondo i retaggi del passato, sostanzialmente in linea diretta con il ventennio fascista.

Si susseguono così nel testo le testimonianze e le riflessioni sulla strategia generale ma anche sugli errori tattici, l’aver chiesto troppo o troppo poco. Si ruota per esempio intorno ad una legge allora emanata, la 382, che recepiva alcune istanze di rappresentanza ma non smilitarizzava il corpo. Ecco così le inevitabili divisioni interne sulla linea da tenere, una dialettica che allora dovette fare i conti con la realtà. Normativamente si ottenne forse poco, questa è una delle conclusioni, ma politicamente e culturalmente molto di più. Si chiedeva in definitiva il riconoscimento del ruolo civile della Guardia di Finanza, la sua elevazione anche sul piano culturale, in un corpo che ha evidente relazione con il sociale e con l’economia.

Si dà rilievo giustamente a persone che allora a Venezia e nelle caserme dei Finanzieri della città ci misero, come si dice, la faccia anche davanti ai superiori, rischiando di persona. Sono per esempio figure come Lorenzo Lorusso e Carmine Buffone; persone capaci anche di sdrammatizzare con il compiacersi autoironico, è il caso di Buffone, di una poco valutata, dalle gerarchie, parte di una sua prova d’esame, per altro superata, quella che riguardava l’impegno e la capacità militare. Dice tutto. Ed è altrettanto significativo rilevare dal libro che la passione di quell’esperienza ha cementato amicizie durature nel tempo.

Il breve ma intenso periodo di lotta dei Finanzieri si intreccia nel racconto con una fase di più generali lotte sindacali e sociali nell’area veneziana che vede in particolare protagonista la Cisl e il suo neo segretario Bruno Geromin, capace di accogliere e fare proprie le istanze del movimento dei Finanzieri di cui seppe cogliere lo spirito non corporativo. Puntualizzante al riguardo ciò che scrive nella parte iniziale del libro l’autore Madricardo: “La rapida affermazione del movimento dei Finanzieri Democratici seppe fin da subito saldare gli iniziali temi di protesta e di rivendicazione con quelli più ampi della riforma perseguita dal mondo del lavoro, riuscendo a dare maggior forza e basi a quella battaglia”.

Il movimento ha una breve stagione dal ’76 al ’78 con risultati formalmente forse deludenti rispetto alle prime aspettative (vengono anche detti “fallimentari”) ma storicamente e politicamente rilevanti, se è vero che a distanza di quarant’anni comunque la Guardia di Finanza risulta nel complesso più qualificata e mutata nel suo clima interno ( “è venuto meno il clima ‘feudale’ che dominava la Gdf ancora negli anni ’70. E questo non è poco” scrive Madricardo), nonostante il non raggiungimento dell’obiettivo principale, la smilitarizzazione. Ma politicamente e storicamente rilevanti anche per l’interlocuzione e la dialettica di queste lotte con i protagonisti politici dell’epoca, Il Partito Radicale, le formazioni di Nuova Sinistra (in particolare Avanguardia Operaia prima e Democrazia Proletaria in seguito) e in modo ondivago il Partito Comunista, che una certa realpolitik portava talora – si dice nel testo – a rapportarsi più con le gerarchie che con la base. E rilevanti soprattutto per il contesto generale in cui si inserisce il movimento.

Sono infatti gli anni d’oro delle lotte per i diritti civili e per la democratizzazione trasversale che si rivendica in molti settori sociali: nelle roccaforti istituzionali in cui si esercita potere e repressione, Ospedali e segnatamente Ospedali Psichiatrici, Carceri, nelle stesse Chiese, cattolica e protestanti, che seguono i luoghi pionieri già in parabola discendente come la Scuola e l’Università e poi soprattutto in settori molto vicini ai Finanzieri, come  l’Esercito e la Polizia di Stato. Settore quest’ultimo trainante gli altri e il cui ruolo è giustamente rilevato nel testo in cui si citano persone impegnate nella democratizzazione di quel corpo e che ho potuto conoscere e apprezzare come Franco Fedeli, a lungo direttore della rivista “Nuova Polizia” e il Capitano Ambrosini, presentatomi quest’ultimo dal fratello maggiore di Caludio, Alberto Madricardo, anch’esso citato nel testo.

Eloquente circa la portata del movimento trasversale di quegli anni è il sottotitolo del libro “il ’68 del Movimento dei Finanzieri Democratici”. E’ l’onda lunga dell’annus mirabilis e d’altra parte è ormai storicamente accolta l’interpretazione del ’68 non come anno ma come ciclo. Che inizia, a parer mio, quantomeno nella società e nei costumi oltrechè in qualche significativo anticipo di lotte operaie, dieci anni prima a fine anni ’50 e termina alla fine dei ’70 e nei primi ’80, un venticinquennio, l’arco cronologico di una generazione.

Claudio Madricardo è ancora più puntuale e indica la fine di questo movimento specifico dei Finanzieri con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro tra il marzo e il maggio del ’78, ”un evento – scrive – che ha segnato il passaggio da una stagione politica il cui perno era la speranza del cambiamento, alla successiva epoca di chiusura e riflusso”. Si può concordare se si pensa che quel rapimento è il punto più alto e più crudo del terrorismo sedicente di sinistra; che si prolungherà, tra l’altro con particolare intensità proprio nel Veneto, almeno fino all’81 (rapimenti Dozier e Taliercio) e teso a delegittimare nel merito e nel metodo tutti i movimenti per i diritti di quegli anni e i loro ispiratori democratici e riformisti. Spesso questi vittime designate simboliche proprio per la loro visione della democrazia.

Concludendo il lettore trova in “Democrazia indivisa” una significativa storia di nicchia che tuttavia va inserita a pieno titolo nella grande storia del Novecento. Capire attraverso questa microstoria i limiti, gli equivoci, le semplificazioni, inevitabili per chi ‘fa le cose’, ma anche le grandezze e le visioni lontane di quel periodo dà rilievo a ciò di cui comunque siamo fatti e che ci appartiene.  Mi pare sia proprio questo infine l’obiettivo dell’editore Ytali, che con questa pubblicazione, la terza e in parallelo con la già consolidata omonima testata web, intende fare proprio un lavoro di scavo e di promozione di protagonisti anche minori, considerandoli  buoni portatori di idee capaci di bucare il tempo e restare attuali.