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Quando i quotidiani decidono di allegare in una occasione speciale il libro di uno scrittore famoso ci si trova di fronte a diverse possibilità: ci sono i libri più importanti di tale autore che vengono sfornati settimanalmente nel giro di poco tempo o, come nel caso di “Auschwitz città tranquilla”di Primo Levi, composto da dieci racconti presentati da Fabio Levi e Domenico Scarpa, si tratta di un testo che vuole autorevolmente accompagnare la Giornata della Memoria.

Chi scrive ha avuto Primo Levi per compagno di scelte letterarie e professionali da sempre, ha avuto modo di portarlo ad esempio di testimone lancinante e severo a generazioni di studenti, ha avuto modo di leggere e rileggere numerose volte “Se questo è un uomo” e “La tregua”, condividendo i propri pensieri con adolescenti sempre diversi, fornendo loro, attraverso di lui, motivo di riflessione e giudizio sulla Storia e sulla persecuzione antiebraica operata negli anni del Nazismo.

Ritrovare qui, in questo breve volume, una scelta di suoi racconti che forzatamente risulta frammentaria, confesso che a prima vista mi ha lasciato perplessa: mi pareva non gli facesse giustizia abbastanza, lo sentivo impoverito della sua stessa calma ed implacabile capacità di giudizio, che ritenevo potesse avere un senso più profondo soltanto all’interno delle sue opere viste di volta in volta nella loro integrità.

Poi, gradatamente, ho rivisto con calma un testo dopo l’altro, e ho sentito riverberare di nuovo, dentro di me, tutta l’intensità del suo messaggio.

Ed ho trovato, più di sempre, una serie di insegnamenti di vita che, partendo da storie di lager, alla fine lo trascendono sempre in una superiore filosofia di vita, di vita appunto che si oppone tenacemente alla morte che lo circonda nel suo periodo di prigionia.

Le prime frasi che ho preso e tenute a mente sono quelle pronunciate da Rappoport, nel racconto “Capaneo” con cui si apre la raccolta : “Ma ecco:’au temps de ma jeunesse folle’, ho bevuto ,ho mangiato, ho fatto all’amore, ho avuto amici di tutte le razze, ho lasciato la Polonia piatta e grigia per quella vostra Italia, e in Italia ho studiato, ho viaggiato, ho visto. Ho fatto tutto questo con gli occhi bene aperti, non ne ho perso una briciola. … Mi è andata molto bene, ho accumulato una grande quantità di bene; e tutto questo bene non è sparito, ma è in me, al sicuro: non l’ho lasciato impallidire. L’ho conservato. …Poi sono finito qui: sono qui da venti mesi, e da venti mesi tengo i miei conti. I conti tornano, sono ancora parecchio in attivo. …Se all’altro mondo incontrerò Hitler, gli sputerò in faccia con pieno diritto, perché non mi ha avuto”.

Questa forza della resistenza della vita sulla morte, che in questo suo compagno arriva all’espressione più audace e completa, si ritrova comunque anche altrove, in queste pagine, persino quando è il dolore la cartina di tornasole per valutare ciò che ci rende vivi e deve comunque essere conservato. “…Pensava una cosa che non aveva pensata da molto tempo, perché aveva sofferto assai. Che il dolore non si può togliere, non si deve, perché è il nostro guardiano. Spesso è un guardiano sciocco, perché è inflessibile, è fedele alla sua consegna con ostinazione maniaca, e non si stanca mai, mentre tutte le altre sensazioni si stancano, si logorano, specialmente quelle piacevoli. Ma non si può sopprimerlo, farlo tacere, perché è tutt’uno con la vita, ne è il custode “. (dal racconto “Versamina”)

Nel suo riandare al passato, con una memoria fotografica che gli impedisce di dimenticare ogni singolo dettaglio, Levi fa riaffiorare davanti ai nostri occhi semplici compagni, colleghi di laboratorio nel lager, addirittura un suo superiore di allora, con cui riesce a riannodare rapporti epistolari dopo decenni, e di cui resta davanti a noi la personificazione di un uomo “della dimensione grigia”, la dimensione di coloro, che pur dentro al meccanismo dell’orrore e dello sterminio, non hanno voluto capire e sapere, hanno avuto persino moti di minima umanità e attenzione , ma restano comunque dalla parte dei carnefici. “…Che fare? Il personaggio Muller si era “entpuppt”, era uscito dalla crisalide, era nitido, a fuoco. Né infame né eroe: filtrata via la retorica e le bugie in buona e in mala fede, rimaneva un esemplare umano tipicamente grigio, uno dei non pochi monocoli nel regno dei ciechi.”(dal racconto “Vanadio”)

Levi passa sempre più rapidamente da un giudizio su uomini ed eventi legati al periodo della Guerra e della sua deportazione, ad una riflessione più generale sugli uomini, sul mondo, sulle cose, ed in questo respiro in qualche modo universale sta secondo chi scrive la  vera forza di queste pagine. “…Come Rumkovski, anche noi siamo così abbagliati dal potere e dal denaro da dimenticare la nostra fragilità essenziale: da dimenticare che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori dal recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno”.(dal racconto “Il re dei Giudei”)

Un’ultima riflessione sui testi poetici che aprono e chiudono la raccolta : se nel primo, in apertura, c’è la scelta del silenzio sulle schiere brune dei deportati, così simili alle righe di formiche che vanno verso i binari del tram a morte certa, nell’ultimo la condanna dei morti invano, nei confronti degli uomini di potere e delle loro decisioni che nella Storia li hanno portati alla scomparsa inutile e prematura, è una condanna recisa, netta, senza alcuna concessione alla pietà “…Sedete e contrattate

                                      Finchè la lingua vi si secchi.

                                      Se dureranno il danno e la vergogna

                                      Vi annegheremo nella nostra putredine.”

Primo Levi, Auschwitz Città Tranquilla, Einaudi 2021