Si è usciti dalle elezioni amministrative con qualche certezza di meno e qualche dubbio in più.
La quantità degli astenuti è l’elemento che ha caratterizzato la tornata elettorale.
Nelle grandi città (Bologna esclusa) la percentuale di quelli che “io non ci vado” è stata sensibilmente sopra il 50%.
E nel secondo turno di ballottaggio in quelle città è salita ulteriormente lasciando i voti validi sotto il 40%. Il dato nazionale di tutti i comuni che votavano con la stessa legge è stato il 43,94% dei votanti.
A Siena dove alle supplettive per il seggio alla Camera Letta “ha trionfato” la percentuale di votanti è stata solo del 35,93%.
Non che il trend fosse troppo diverso, perché la partecipazione è in calo ormai da quasi un ventennio. Indifferentemente fra Politiche e Amministrative.
I lettori delle cose politiche italiane che a prenderci sono dei campioni, qualche volta nemmeno il giorno dopo, dicono che l’assenteismo è da ascrivere in larghissima parte al campo del CentroDestra e che ha influito la scarsa qualità dei loro interpreti.
Perché quelli che “io non ci vado” secondo loro apparterrebbero tutti a quella sponda. Vabbè, elucubrazioni.
Qualcun altro si spinge fino a prefigurare un addormentamento dovuto al fattore rassicurante di Draghi al Governo.
E’ evidente che non ci azzeccano nemmeno stavolta.
Non che io abbia la spiegazione anche perché altrimenti avrei fatto un lavoro diverso nella vita.
Ma indubbiamente il fattore Pandemia accompagnato dalla sicurezza che infonde il Governo Draghi, con dentro tutti o quasi, ha contribuito ad instaurare un clima di attesa per quelli che potranno essere gli sviluppi degli scenari politici nazionali.
Perché si viene da un crollo, vicino ormai alla liquidazione, del M5S che non solo aveva spopolato alle scorse politiche 2018 e che governava alcune importantissime città italiane – tutte catastroficamente perdute in questa tornata amministrativa – ma che aveva espresso oltre che una “classe dirigente” ministeriale da mani nei capelli, anche un Presidente del Consiglio che aveva retto due governi antitetici, con due coalizioni diametralmente opposte in quanto ad orientamento politico, scelte di campo, posizionamento europeo.
Col bel risultato di cavalcare l’onda della paura della Pandemia a suon di DPCM, di conferenze stampa televisive a ritmi tanto serrati quanto vacui nei contenuti, con il supporto di un apparato della comunicazione tutto focalizzato a creare un “mito” e un personaggio “indispensabile”.
Si è visto, per fortuna, come è finito.
A raccattare i rimasugli di un Movimento che ha rinunciato alla sua ragion d’essere, alla sua volontà di protesta, al suo populismo esasperato in cambio di una pausa di stampo governista che garantisse ancora, fino alle prossime elezioni, la sopravvivenza di quella pletora di parlamentari che non avranno più nessuna prospettiva dopo il 2023: puro poltronismo.
Senza nessuna prospettiva, senza nessuna idea, senza nessuna proposta che dia a quella formazione una nuova identità. Una sua constituency, come dicono gli anglofoni.
Si sono messi al traino del Pd quando c’era chi, fino a pochi mesi fa, prospettava l’ipotesi di un’alleanza strategica che vedeva l’avvocato di Volturara Appula quale punto di riferimento di tutti i progressisti.
Vaneggiamenti di qualche maitre a penser che sono stati spazzati via prima dall’incompiutezza di quel progetto, poi dalla pochezza degli interpreti e da ultimo dai risultati di queste amministrative.
Non che il CentroSinistra se la passi tanto meglio.
Enrico Letta si destreggia fra gli spifferi delle correnti del Nazzareno, galleggiando sulla situazione di tranquillità che un Governo capace ed estremamente autorevole garantisce.
Si ha come la sensazione che in fin dei conti al Pd la situazione vada bene così com’è con la fiducia che, per inerzia, i risultati verranno, dunque meglio non agitarsi troppo.
Il partito di Enrico Letta vorrebbe (?)-potrebbe (?) assorbire in tutto o in parte i naufraghi del “grillismo”, ma l’operazione richiederà tempo e intanto bisogna rispondere ad alcune domande: per esempio, in cosa consiste esattamente il «campo largo» invocato dal segretario del Pd (leggi ampie alleanze), che presuppone l’incontro di mondi molto eterogenei.
Nello stesso tempo è uscita anche la proposta del Nuovo Ulivo: una coalizione che vada da Bersani a Renzi passando per Conte e Calenda.
Ma è una proposta già bocciata da tutti quelli che ne dovrebbero far parte, una suggestione che non suscita il benché minimo entusiasmo neppure – anzi, meno che mai – negli ulivisti autentici (Arturo Parisi: «Troppe condizioni sono venute meno rispetto a 25 anni fa»), che non può parlare ai giovani che all’epoca non erano nemmeno nati, e che, dulcis in fundo, non ha più la cornice del sistema maggioritario che ne è la decisiva premessa di sistema
Nel frattempo ci si barcamena concedendo qualcosa alle prolusioni populiste dei pentastellati, battagliando “ideologicamente” con Salvini – che da quando è stato messo in mutande al Papeete non ne ha azzeccata più una – ma senza mai dare l’impressione che anche nel campo “democratico” ci sia la voglia, prima ancora che il progetto, di realizzare una prospettiva nuova per un Paese che ne avrebbe davvero il bisogno.
Nel CentroDestra la confusione è ancora maggiore, se mai fosse possibile.
Si dicono alleati ogni due per tre, traguardando prima l’elezione del Colle, sulla quale il numero dei loro parlamentari può davvero essere determinante, ma provando a proiettarsi già sulla prossima scadenza delle Politiche. Che nessuno, ma proprio nessuno osa seriamente preconizzare in una data diversa da quella canonica: 2023. Per tante e troppe ragioni: il taglio dei parlamentari, la pensione garantita, l’incertezza assoluta, le grandi diffidenze e le differenze che pervadono tutte le componenti. E per il fatto che Draghi governa talmente bene che non ci sono nemmeno le condizioni per sollevare obiezioni, che non siano puro teatrino politico.
Quando però si esce dai tatticismi e si prova a guardare appena al di là della punta del proprio naso emergono con nettezza le contraddizioni insite all’interno di quello schieramento: pensate solo alla posizione sull’Europa che vede Forza Italia schierata convintamente sul fronte del PPE e le pulsioni sovraniste e anti atlantiste di Meloni e di Salvini.
Le stesse differenze che qui da noi, sempre all’interno del CentroDestra, sono sostanziali su Quota 100, campagna vaccinale vs novax per fare solo due esempi.
Per non dire della “fronda” tutta interna a Forza Italia con tre ministri (m/f) di grande peso e di grande popolarità che si sono attestati sul “non moriremo sovranisti” e che con Brunetta hanno apertamente aperto la stagione del riposizionamento di quel mondo che loro definiscono centrista e che vorrebbero poter rappresentare con la prefigurazione di una nuova coalizione a sostegno del premier Draghi che ricomponga le attuali forze intorno ai tre poli europei: socialista, liberale, popolare.
E siamo così arrivati al dunque: a quell’idea che molti vorrebbero vedere concretizzata, che molti auspicano come la nuova “mossa del cavallo”, che autorevoli lettori delle cose politiche dipingono come l’approdo “salvifico” di una democrazia che soffre di un bipolarismo incompiuto e di una eccessiva polverizzazione delle rappresentanze.
C’è qualcuno anche che prova a spingere in quella direzione con adunanze e convegni, ma ad oggi questo approdo è ancora avvolto dalle nebbie: la costituzione formale di un’ampia area che si ispiri all’agenda e al metodo Draghi e che sappia parlare con la voce della concretezza e della competenza.
Magari tenendo conto del fatto che «un partito non può essere un mero collettore della voce dei cittadini, il megafono di quel che vuole la gente: un partito ha il compito di formare l’opinione pubblica, di orientare il dibattito politico, di immettere idee e valori nella discussione pubblica».
Solo che nessuno prova a fare la prima mossa e tutti i possibili king-makers si tengono coperti e continuano, forse un po’ per forza, un po’ per autocompiacimento, a giocare nel loro ristretto orticello. Fra idiosincrasie, distinguo di lana caprina e piccole ripicche.
Perché di spazi politici davvero troppo piccoli si tratta anche se qualche avvisaglia di prove generali si è intravista in particolare a Roma con la “discesa in campo” di Calenda e della sua lista che ha raggiunto un risultato tutt’altro che disprezzabile, anzi molto lusinghiero.
Frutto proprio di quell’ispirazione pragmatica e valoriale che si ricordava.
Poi passare dal Campidoglio – c’era la Raggi a fare da benchmark, capirai! – al Parlamento c’è la stessa distanza che c’è fra le Terra e la Luna.
Per cui, volendola leggere con un po’ di ottimismo, effettivamente tutta questa situazione confusa, che è destinata a vedere ulteriori scomposizioni e ricomposizioni del quadro politico, che matureranno comunque tutte all’ombra del Governo Draghi, potrebbe risultare prodromica di una condizione eccellente.
Almeno ci vogliamo credere.

Veneziano, con i piedi nell’acqua, dalla nascita (1948). Già Amministratore Delegato di una Joint Venture italo-tedesca di accessori tessili con sede a Torino. Esperienze di pubblico amministratore nei lustri passati. Per lunghissimi anni presidente del Centro Universitario Sportivo di Venezia (CUS Venezia)