Da STEFANO CECCHETTO riceviamo e volentieri pubblichiamoT
Nel breve ciclo di qualche decennio, essendo ormai venute meno le certezze di un’etica considerata inattaccabile per le sue radici consolidate nell’arco dei secoli, l’arte decide di aggrapparsi ad un altro assoluto – il mercato – la cui valutazione è per la maggior parte contrapposta al valore intrinseco dell’opera.
L’arte americana, in particolare, riflette la condotta del Paese in quanto perpetra il crollo dell’ideologia dentro ai presupposti di una cosiddetta avanguardia utilizzata come arma di pressione morale e finalizzata a dividere – piuttosto che ad unire – l’espressione morale del concetto di ‘bandiera’. Una bandiera che Olivi rimette insieme occupando le stellette degli Stati membri con l’effige di volti iconici dello star system, della ricerca scientifica e del potere governativo.
Si tratta di un’operazione in cui l’iperbole creativa della Pop Art degli anni sessanta, finalizzata ad esaltare gli emblemi della quotidianità: le zuppe Campbell, la Coca Cola, etc. sembra subire, nel lavoro di Pier Luigi Olivi, un processo di redenzione e si offre come simulacro di vita, capace di contestare e ridicolizzare il malessere di una società civile avviata ormai verso un declino inarrestabile.
E l’arte, piuttosto che rivelare la sua funzione di cura conciliante, si fa linguaggio della menzogna libertaria, sulla cui parete illusoria si schianteranno tutti i miti del potere e del denaro.
Olivi gioca quindi con gli emblemi del potere: il dollaro, la bandiera, la statua della libertà e il volto grottesco di Donald Trump, per confermare l’arte – ancora una volta – quale strumento di denuncia, per la sua facoltà di autodeterminarsi e di riprodursi come linguaggio autonomo.
In questo contesto, il lavoro dell’artista tende a spostare il focus fuori dal dominio della morale e dell’etica, a cui si ricollegano tutte le forme ideologiche delle avanguardie, qui invece il tema emancipatore è una dirompente ironia che intende mistificare il senso di un’arte quale prodotto sui generis.
L’obiettivo resta dunque quello di convertire l’energia di un sentimento distruttivo per poi indirizzarlo verso una rinnovata fiducia nelle capacità di ognuno a riflettere sui nuovi territori dell’arte. Al fine di saper scindere dentro al mito, il vero dal falso, rifiutando così quella dottrina dello stereotipo che si è posta l’obiettivo di omologare le nostre coscienze.
L’artista diventa dunque un terapeuta visuale, il cui grado di comunicabilità ed il cui indice di intellegibilità etica serve a denunciare tutte le manifestazioni dentro alle quali il sistema americano vacilla per la sua mancata strategia politica e sociale.
Pier Luigi Olivi cerca dunque di restituire all’arte la sua concezione di ‘messaggio’ nella rappresentazione esasperata di elementi che si riflettono in un ready-made concettuale, un gioco di rimandi in cui il bisogno biologico di ‘esprimersi’ fa da specchio – attraverso il paradosso del gioco – a quello di ‘comprendersi’.
Il fine è l’annullamento dell’arte come sistema di mercato attraverso la proposta di una rappresentazione del mercato stesso, per una prospettiva che intende riaffermare proprio l’arbitrarietà dell’arte.
La stabilità dell’oggetto, la sua peculiarità, messa in pericolo da Duchamp, si trasforma ora nell’opera di Olivi, nell’inquietudine del dubbio, Jasper Johns del resto affermava: “I think the object itself somewhat dubious concept”, in quanto è l’oggetto stesso a formulare il dubbio.
L’indagine, più che argomentazione di esistenza si trasforma in dimostrazione di potenza, le pretese sono più limitate, l’interpretazione dei simboli non è sublimazione bensì denigrazione degli stessi. Il dollaro, la bandiera, la statua della libertà non vuol dire che siano compresi da tutti nella stessa maniera, come avveniva invece per gli emblemi della pop art, ora, grazie a sistemi di conoscenza culturale diversa questi stessi simboli diventano profanabili.
Contro qualsiasi velleità di critica e di contestazione, questi simboli però non tentano di sfuggire alla soggezione ideologica del sistema, piuttosto vengono esibiti dall’artista come emblemi di una rinnovata visibilità ed esposti ancora una volta per evitare di respingerli definitivamente nell’ombra.
Stefano Cecchetto
