Ma che accidenti… dirà il lettore di fronte ad un titolo del genere. E con ragione, aggiungiamo noi. Ma ci arriviamo subito.
Qualche tempo fa ci siamo occupati, proprio qui, di quella che abbiamo chiamato la “Maledizione degli acronimi”, ossia la “pandemica” tendenza tutta moderna (che di moderno non ha proprio niente) ad abusare delle sigle, al posto delle parole-parole, le parole vere e proprie. Della tendenza, cioè, a parlare e a scrivere a furia di acronimi, spesso inutili quanto incomprensibili alla maggior parte delle persone. Abbiamo in quell’occasione tralasciato di proposito la regina delle sigle, il principe degli acronimi contemporanei, e cioè appunto lo… (non so se maschile o femminile) LGBTQI+.
Ma che benedetto accidenti vuole mai dire questa pressoché impronunciabile sequenza di lettere, si chiederà il lettore? Se lo chiederà, almeno, quello ignorante come me (e forse sono tanti) che fino a poco tempo fa non aveva la più pallida idea del suo significato (così come ignoro il significato di tante altre sigle che pullulano nei discorsi odierni).
Ora, bisognerebbe a proposito di questa ed altre consimili “parolacce” (mi riferisco all’aspetto linguistico, non a quello concettuale; quantunque…), bisognerebbe, dicevo, fare un cenno alla cosiddetta semantica dell’eufemismo, cioè alle parole introdotte a mano a mano nella lingua in sostituzione di altre percepite come “sporche” o imbarazzanti.
Ma prima soddisfacciamo la sacrosanta curiosità del lettore. Dunque, il sempre sia benedetto acronimo di cui sopra varrebbe quanto segue: L (lesbiche), G (gay), B (bisessuali, attratti cioè sia dai maschi che dalle femmine), T (transgender, cioè coloro che s’identificano con un sesso diverso dal sesso di nascita, e magari un po’ in quello maschile e un po’ in quello femminile), Q (cioè “queer” o “questioning”, ossia “in dubbio”: persone che addirittura non sono ancora sicure del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere), I (intersessuali, cioè persone con caratteristiche fisiche diverse da quelle assegnate tradizionalmente al proprio genere, caratteristiche magari un po’ maschili e un po’ femminili; ma può essere che esse siano, ciò nondimeno, del tutto eterossessuali; fate un po’ vobis).
Insomma, la sigla misteriosa verrebbe a comprendere e a riferirsi all’intera galassia di tutti coloro che si discostano e si differenziano dalla norma dell’identità sessuale (maschi e femmine) – se ci è consentito di usare questo termine (norma) senza voler con ciò esprimere alcun giudizio di valore e recare offesa a chicchessia. Dove “norma” significa infatti semplicemente “ciò che di solito si verifica per lo più”.
Ecco, sarebbe finita qui. La sigla, voglio dire, sarebbe finita qui. Ma siccome non si sa mai, qualche anima pia ha pensato bene di aggiungere all’acronimo anzidetto un segno “+” (LGBTQI+), e ciò allo scopo di evitare l’aggiunta altre lettere (cosa che sfiorerebbe a dir poco il grottesco), come ad esempio la lettera A (che varrebbe “asessuale”, cioè chi non prova attrazione per alcun genere) e la P, che starebbe per “pansessuale”. Il quale ultimo termine – si badi – non equivale – dicunt – a “bisessuale” (cioè attratto sia da maschi che da femmine). Macché. Come suggerisce il prefisso “pan-“, significherebbe attratto da tutto e da tutti, magari anche da capre e galline (non si sa se consenzienti o meno alle relative avances…).
Ora ci si perdonerà questo po’ di ironia, così poco politically correct (ce ne rendiamo conto) ma un tantino d’impazienza, ne converrete, ci scappa. Perché a leggere la sia pur sommaria spiegazione di poco fa, un certo di mal di testa viene, diciamocelo.
Però la domanda vera è un’altra: ma ce n’era bisogno? C’era veramente bisogno d’introdurre nella lingua una simile pseudo-parola? C’era bisogno di creare (e perfezionare poi nel tempo, per addizione di lettere ulteriori) una cotanta sigla? La quale ultima, dunque, pare, che voglia dire un sacco di cose, una vera caterva. Forse troppe cose. Essa è praticamente l’equivalente di un articolato e controverso discorso. Ma sembra a voi plausibile trasformare i discorsi in sigle? Usare sigle al posto delle spiegazioni e dei discorsi? Non è meglio parlare e spiegarsi?
A onor del vero, merita di fare un cenno alla storia di questo acronimo. Dunque, la criptica “parolaccia” LGBT pare nasca negli anni Ottanta (ma cominci a diffondersi poi solo nei Novanta) negli Usa (al solito) come etichetta-ombrello a difesa e rivendicazione dei diritti di tutti i non cisgender (i “non eterosessuali”, insomma). A proposito, anche “Usa” è un acronimo, però è pronunciabile, questo, e noto ai più. Orbene, a questa variegata galassia di generi e d’inclinazioni sessuali (che solo a sentirla descrivere si va un tantino in confusione) appartenevano in principio solo coloro che fino alla rivoluzione sessuale degli anni Sessanta erano chiamati niente di meno che “sodomiti”. Termine che conteneva un considerevole grado di disprezzo. Così, per contrastare il disprezzo, si cambiò la parola. (Siamo alle solite, ahinoi: si cambiano le parole invece di cambiare le cose).
E allora si prese a parlare di “invertiti”, e poi di “omosessuali”, e più tardi di “gay”. (E’ interessante l’origine e la storia della parola “gay”; ma è meglio parlarne un’altra volta). Finché adesso, vedete, a non voler far torto a nessuno e a voler comprendere tutti i “non convenzionali” in fatto di sesso/genere (perché ormai è chiaro: mica ci sono solo i cosiddetti gay tra i “diversi”), cioè per comprendere tutti coloro che non sono dei comuni e miseri eterosessuali (i quali, sia detto per inciso, non mi risulta che siano precisamente una minoranza di qualsivoglia popolazione; ma lasciamo andare), ebbene per comprendere ogni, come dire, “non conformità” è andata crescendo quest’obbrobrio di parola, questo “aborto linguistico” della LGBTQI+.
Ed ora, dulcis in fundo, una piccola chiosa, a cui si accennava più sopra, e cioè una notazione sulle “parole-ipocrisia”, i cosiddetti eufemismi. I quali ultimi sono soltanto un modo per dire le stesse cose di prima, senza che qualcuno storca il naso. Ecco, lasciamo perdere per un momento il sesso e il genere. Parliamo d’altro.
Avete presente la parola “cesso”? Orrore, una parolaccia! Ma “cesso”, illo tempore, significava semplicemente “recesso”, cioè luogo appartato della casa, come di norma erano i cessi. Poi, per evitare di nominare direttamente quel luogo imbarazzante, avvertito a un certo punto come volgare, si passò ad usare un altro termine: “gabinetto”, cioè piccola cabina (che tali una volta erano le “ritirate” – altro eufemismo – anche nelle case signorili). Ma non bastava: dopo un po’ una parola normale diventa volgare, se ha a che fare con cose imbarazzanti. E così venne la volta di “servizi”, e poi ancora “toilette”, e quindi “w.c.” e… E non pochi oggi, per dire “Scusate, dov’è il bagno?” (ed ecco un altro eufemismo) usano addirittura la perifrasi eufemistica “dove posso lavarmi le mani?”, anche se devono solo fare la pipì. E poi magari dopo lavarsi le mani, d’accordo.
Insomma, si fanno le acrobazie per non dire semplicemente “gabinetto”. Non farà parte un po’ di questa famiglia “ipocrisiologica” anche la raccapricciante sigla “LGBTQI+”?… Al lettore l’ardua sentenza.

Nato a Napoli nel 1953, vive e lavora da quarant’anni a Milano. Insegna lettere nella scuola superiore. Ha collaborato con agenzie pubblicitarie, con società di ricerche di mercato e con numerose testate specializzate in management, packaging, marketing, edilizia, arredamento. Ha pubblicato con la Mondadori alcuni testi scolastici e di recente una raccolta di brevi saggi di costume dal titolo “La bussola del dubbio”.