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Come ormai tradizione, proponiamo la recensione dei film cui il sottoscritto ha avuto il piacere di assistere. Buona visione a chi dei lettori sarà invogliato a recarsi in sala e ritrovare la magia della decima arte.

Les enfants des autres (Rebecca Zlotowski)

Delicato e convincente, incentrato sulla brava protagonista, una quarantenne e rotti (nella realtà l’attrice protagonista ne ha 45), e il maledetto orologio biologico che segna le ultime possibilità di diventare madre. Per di più il destino le mette di fronti i figli degli altri che lei sa e saprebbe amare ma, appunto, sono i bambini des autres.. E il film accompagna e segue la bravissima Virginie Efira, con complice tenerezza e senza commiserazione, ne rivela le espressioni, gli sguardi, le rughe intorno agli occhi e l’esuberante sessualità. I critici hanno rimproverato al film mancanza di coraggio, di essere troppo “normale”, di non osare. Credo al contrario che questo sia il suo maggior pregio, la vita il più delle volte è normalità, rimpianti e amarezze più che tragedie, è fatta di sentimenti contrastanti e forse banali. Come quello che esprime la nostra eroina: “Non penso che la mia vita non valga niente perché non sono mamma ma la gravidanza è un’esperienza collettiva di cui io non faccio parte e questo un po’ mi dispiace”.  Nota a parte per gli insegnanti: la scena del consiglio di classe ha un’impressionante analogia con quello che avviene anche da noi.

The banshees of Inisherin (Martin McDonagh)

Originale e gustoso, ambientato su un’isola immaginaria irlandese, bellissima e verde come solo l’emerald island (la fotografia è talmente bella da rischiare perfino di essere eccessivamente calligrafica). Gli anni sono quelli della conquista dell’indipendenza e della guerra si hanno solo echi lontani tra l’assoluta indifferenza degli abitanti (forse la guerra è l’unico elemento un po’ incongruo: non ha alcuna funzione narrativa ma allora perché citarla?). Trama esile ma racconto solidissimo, della tragedia personale di un uomo candido che vive felice finché l’amico di sempre e compagno di bevute al pub gli dice brutalmente che è “dull”, noioso ma pure un po’ stupido, insignificante. E con orrore finisce con l’intuire che gli altri, compresa l’amata sorella, lo considerano tale. E il suo microcosmo perfetto va in pezzi. Film amaro e tenero, che incuriosisce e spiazza, ricco di un umorismo surreale (una per tutte: il protagonista parlando di Beethoven si lamenta di questa gente “che ha nomi strani”, lui che si chiama.. Padraic Sùilleabhàin) e capace di commuovere per la morte dell’asinella Jenny. Grandissimo Colin Farrell che dopo tanti ruoli da figo si cimenta brillantemente con la dullness.. Super consigliato.

The eternal daughter (Joanna Hogg)

Film che promette faville ma delude clamorosamente le aspettative che crea. Bella ambientazione, superba recitazione, un’aura di mistero classicamente costruita tra rumori sinistri, nebbia, sospetti di fantasmi, porte e finestre che sbattono, un albergo che appare disabitato.. per tutto il film ti chiedi se sei capitato su Psycho o su Shining o The others.. Nessuno di questi.. una conclusione banale e talmente frettolosa che si resta con l’impressione che non si sapesse come finire il film.  Miglior attore non protagonista .. il cane Louis.

Saint Omer (Alice Diop)

Un legal drama, tratto da un fatto vero. Il processo a una giovane donna, Laurence Coly, rea confessa dell’infanticidio della figlia di 15 mesi. Il succedersi delle udienze e le dichiarazioni dell’imputata spiazzano lo spettatore che non può rifugiarsi nella comoda risposta della pazzia per spiegare un evento così terribile. E neppure può guardare al degrado sociale o culturale: la ragazza, immigrata senegalese, è istruita, parla perfettamente francese, educata e garbata, e si rivela impenetrabile e contraddittoria, non tenta di suscitare alcun pietismo, non cerca di essere simpatica (e ci riesce benissimo). Appare di volta in volta una vittima, una narcisista, una folle allucinata o una cinica opportunista. Una lettura continuamente rimbalzata e contraddetta da versioni diverse dello stesso avvenimento e della stessa persona raccontate dai testimoni e dall’imputata stessa. Una realtà di non comunicazione, solitudine, desideri inespressi che lascia spiazzati e interdetti di fronte all’esisto tragico e sostanzialmente inesplicabile della vicenda. Se la parte processuale è davvero riuscita, meno convincente è l’aver voluto inserire una seconda protagonista femminile, Rama, professoressa universitaria di letteratura, anch’essa immigrata (di seconda generazione) dal Senegal, anch’essa incinta e con il terrore di rivelarsi una madre come la sua, arida e poco comunicativa, che segue il processo perché sta lavorando a un saggio su Medea (il film ci propone anche spezzoni del film di Pasolini con la Callas) e ne è fortemente turbata. Al pari di Laurence, Rama è algida, dura, non ispira alcuna simpatia e tiene dentro un disagio e un’inquietudine che, probabilmente, nelle intenzioni dell’autrice sono lo specchio di una irrisolta identità degli immigrati africani in Francia, ancorché perfettamente integrati nella società. 

Blonde (Andrew Dominik)

La scelta del regista (e immagino dell’autrice del libro da cui è tratto) è stata quella di tenersi alla larga dal classico biopic e anzi, ancor più radicalmente, evitare per quanto possibile di parlare di Marilyn Monroe e raccontare solo Norma Jean Baker. Quindi estrema parsimonia nel mostrarci il mondo di Hollywood, unica concessione gustosa quando la protagonista scopre il delta di compenso tra lei e Jane Russell per Gli uomini preferiscono le bionde. Quindi seguiamo le vicende di Norma Jean che “accidentalmente” fa di lavoro la diva mondiale, che abbaglia il mondo con l’abito mozzafiato in Niagara come se stesse alla cassa della Coop.. Inevitabile lo straniamento di chi guarda. Per di più Norma Jean sembra una semideficiente inconsapevole, che non si libera del trauma infantile di una madre pazza che non la desiderava e di un padre mai visto e idealizzato. Che subisce il “dazio” del produttore porco, che si dedica allegramente a un ménage à trois fino a rimanere incinta, che si sposa con celebrities con facilità e che fa da geisha sporcacciona al Presidente. E piange.. Piange quando va a trovare la madre in ricovero, quando la folla la acclama, quando pensa al padre, quando ha paura di non essere all’altezza degli amici di Arthur Miller, quando abortisce.. Pianti sempre uguali, sempre la stessa espressine da bambina smarrita, tanto che non si comprende neppure l’evoluzione del suo mal di vivere che la porta all’eccesso di farmaci che la uccide. Insopportabile, come insopportabile il continuo e insensato alternarsi tra colore e bianco e nero.

Coraggiosa la scelta di riprodurre con la brava Ana de Armas le (poche) scene di film che appaiono anziché usare il materiale di repertorio. Ana affronta decorosamente perfino il non facile balletto di Diamonds are girls’ best friends. La voce non è proprio quella dell’indimenticata Lorelei, ma comunque apprezzabile e coraggiosa. Straordinaria la somiglianza fisica (seno a parte.. decisamente lontano dal sontuoso decolleté di Marilyn).

Khers nist (Jafar Panahi)

Il famoso regista iraniano, prigioniero in patria, mette in scena se stesso nei panni, fatalità, di un regista che si reca in un paesino sperduto nel nord ovest del Paese ai confini con la Turchia per dirigere a distanza un film ambientato dall’altra parte del confine (in Turchia appunto) che lui non può oltrepassare legalmente. Il film è in realtà un documentario perché i protagonisti attori inscenano le loro reali vicissitudini di fuggiaschi dall’Iran che cercano di emigrare clandestinamente in Occidente. La trovata è invero piuttosto forzata e lo spettatore fatica a raccapezzarsi. È invece molto felice l’altro piano narrativo della storia, ovvero la vicenda che ha per protagonista Panahi stesso, involontariamente coinvolto in una spiacevole querelle con gli abitanti del villaggio. Panahi dipinge la realtà rurale del suo Paese, una società stretta tra il giogo – autoinflitto – di riti e superstizioni quasi tribali e quello esterno (ancorché solo minaccia di fondo, da cui tenersi alla larga) dei guardiani della rivoluzione. Un microcosmo sospeso e isolato (anche simbolicamente dal segnale Internet che va e che viene), poverissimo ma non miserabile, con una comunità rispettosa e quasi intimidita dalla personalità che viene da Teheran, gentile nei modi ma ferrea nel rispetto delle sue tradizioni, ancorché solo formale. Come già nel suo precedente “Tre volti” Panahi, ci mostra l’Iran sperduto e impenetrabile, con affettuosa partecipazione e insieme smarrimento. Film difficile, non perfettamente riuscito ma interessante e prezioso per la valenza di reportage, di sguardo su comunità altrimenti non conoscibili.