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Le elezioni del 25 settembre hanno avuto un esito inequivocabile e che difficilmente si presta a interpretazioni alternative: il centrodestra ha vinto nettamente. E poco importa che non abbia avuto la maggioranza assoluta dei votanti; ha avuto una maggioranza relativa solidissima e ha vinto (o stravinto) quasi tutti i collegi uninominali, eccetto quel che resta del red wall tosco-emiliano. Scendiamo di livello e analizziamo il Veneto. C’è ancora meno partita. Basti pensare che tutti i collegi uninominali, eccetto quello di Padova Città, hanno visto il centrodestra non solo vincere, ma attestarsi al di sopra del 50%, doppiando più che spesso il risultato del centrosinistra. La situazione migliora, ma solo leggermente, se ci riferiamo ai dati della Città Metropolitana di Venezia. Arriviamo dunque al nostro Comune. A vincere è il centrodestra, anche qui. Ma i dati sono sensibilmente diversi e numerose possono essere le interpretazioni. Partiamo, come sempre, dai numeri, prendendo i dati del Senato come riferimento. Vediamo il centrodestra al 42,4% e il centrosinistra al 33,8% Abbiamo poi il Movimento 5 Stelle al 8,7% e il Terzo Polo al 8,5%. Inevitabile è cadere in tentazione e far delle riflessioni che portano dritte alle elezioni amministrative. Paragonare i risultati dell’una e dell’altra elezione è terreno scivoloso. Facciamolo, ma con cautela. Il partito messo in piedi dal Sindaco, Coraggio Italia, ha ottenuto a Venezia (pur assieme ad altri tre partiti) il 3,6%, a fronte di un 32% delle amministrative. Il gap è troppo ampio per poter essere derubricato a casualità con la frase “sono elezioni diverse con dinamiche diverse”. Trattasi, in linea teorica, di 9 voti su 10 persi. Questo inevitabilmente comporterà il ridefinirsi di nuovi equilibri nella maggioranza di governo della Città, con il baricentro politico che si sposterà sull’ala destra della coalizione a scapito della parte moderata. E tuttavia qui, sul concetto di moderatismo, si apre il primo degli interrogativi: Brugnaro è un moderato? A livello nazionale probabilmente sì. A livello locale ci sono diversi elementi che invece fanno desumere che spesso le parti in commedia siano invertite. I rapporti con le minoranze, ad esempio, spesso sono più cordiali e istituzionalmente dialoganti da parte della Lega e di Fratelli d’Italia. Analogo discorso si può fare prendendo in esame l’atteggiamento verso i decentramenti amministrativi. A bloccare la valorizzazione delle Municipalità è il mondo fucsia, non di certo la Lega, la cui classe dirigente si è formata spesso proprio sui banchi delle Municipalità, nelle quali il dialogo tra destra e sinistra è pane quotidiano. Anche l’atteggiamento di chiusura verso il ritorno dei Consigli Comunali in presenza non è certo segno di moderatismo. Recente è peraltro un’azione dimostrativa a cui hanno presenziato tutti i capigruppo del centrodestra in Consiglio Comunale, eccetto il gruppo fucsia, e si è manifestata apertamente la volontà del ritorno alle riunioni in presenza, in cui, a differenza del sistema online, il dialogo è libero e le opposizioni possono farsi sentire con più forza. Senza giungere a conclusioni affrettate si invita pertanto a riflettere su una possibile connessione tra il mancato moderatismo di Brugnaro nel suo amministrare e il voto alla sua lista il 25 settembre. Veniamo ora al centrosinistra e, in particolare, al Partito Democratico. Il PD, da sempre, rappresenta tradizionalmente a Venezia e nella percezione dei Veneziani il partito “di governo”. Una dinamica molto simile a quanto accade a livello nazionale in cui il PD è il partito dello status quo (per i detrattori) o il partito della “responsabilità” per i sostenitori o simpatizzanti. E purtuttavia il PD non governa Venezia ormai dal 2014. Otto anni (che a fine mandato saranno 11 o 12) non sono pochi e c’è il tempo, nel periodo mancante, di costruire una proposta alternativa che sappia andar oltre il ruolo statico di partito di governo momentaneamente all’opposizione. I risultati elettorali consegnano un PD che, indipendentemente dal tipo di elezione, si attesta intorno al 20%, con un discreto miglioramento in queste elezioni politiche. Sono risultati che, ripetuti nel tempo, indicano come il PD sia solidamente radicato in Città (e in alcune zone in particolare) ma come non riesca a raggiungere più quelle percentuali che consentono di amministrare una città. In passato il PD ha saputo pure mantenere, mi si consenta il termine desueto, l’”egemonia culturale” che a lungo era stata del Partito Comunista Italiano. Ecco, ritornare a dettare l’agenda politica e i temi del dibattito è il grande sforzo che il PD sta tendando di fare, non senza difficoltà, e con risultati ancora tutti da analizzare. Non è cosa semplice, e c’è la necessità di attrarre l’elettorato che un tempo ha consentito l’elezione di Cacciari, Costa e Orsoni e che poi ha abbandonato il centrosinistra a vantaggio di una sfiduciata astensione o, spesso, di una seppur critica adesione al progetto fucsia. Il Partito Democratico veneziano ha dalla propria alcuni mezzi che possono consentirgli di tornare ad essere punto di riferimento ampio per gli elettori e anche per i soggetti civici: una rete di iscritti corposa e ramificata con sedi sparse nel territorio; personalità competenti in ogni ambito; esperienza amministrativa e riferimenti nazionali. Di contro è da segnalare una burocratizzazione dei processi decisionali; alcune dinamiche correntizie; l’essersi trasformato progressivamente in un “partito degli eletti” non valorizzando gli organi dirigenti e una carenza di dialogo con le categorie cittadine, su cui si sta tendando di colmare il divario creatosi a seguito della sconfitta delle elezioni amministrative del 2015, provando quindi ad uscire dalla comfort zone di opposizione per approdare a una prospettiva attiva di proposta politica per la città, che è sempre stato il tratto caratteristico della sinistra veneziana, sia quella comunista che quella socialista. Adesso il Partito Democratico si sta avviando a un percorso congressuale nazionale che dovrebbe portare alle primarie, così sembra, il 19 marzo 2023. Sembra perfino superfluo dire che sono tempistiche esageratamente lunghe. Il principale partito di opposizione al governo di centrodestra non può permettersi di rimanere inchiodato per sei mesi a cincischiare guardando al proprio ombelico. Serve accelerare e garantire al PD un percorso che da una parte sia in grado di garantire un rapporto bilaterale con la cittadinanza di impronta progressista e dall’altra che sia già a gennaio 2023 in grado di individuare un nuovo Segretario e un nuovo gruppo dirigente in grado di rivitalizzare l’azione politica. In tutto ciò i gruppi dirigenti territoriali hanno l’onere di continuare a elaborare pensiero e iniziative per non lasciare il territorio privo di un punto di riferimento, su cui parte consistente della cittadinanza conta per un rilancio riformista