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Una mossa propagandistica, la denominazione del Ministero dell’Istruzione e Merito; vedremo quali prassi porterà questo cambiamento nominale, che ha comunque richiamato l’attenzione sul tanto demonizzato merito.

Lasciamo da parte la meritocrazia, che è una visione che vede il merito come criterio imperante.   Come suggerisce l’economista Stefano Zamagni, dovremmo parlare di meritorietĂ , vale a dire di “criterio del merito” anzichĂ© di “potere del merito”.

Dovremmo ricordarci comunque che la competizione sociale è ineliminabile, a meno che uno non abbia la possibilità di affidarsi, per la propria promozione lavorativa, alla prassi della cooptazione. E mettiamo da parte la fortuna, la concomitanza di eventi che favoriscono l’emergere di una persona: esiste anche quella, e spesso gioca un ruolo determinante. Atteniamoci in questa sede al merito scolastico. Ci si chiede se sia possibile superare o almeno mitigare la dicotomia inclusione / merito, vista come dicotomia assoluta, aut-aut.

L’acquisizione del merito poggia su due elementi basilari, il talento e lo sforzo per conseguire un risultato. Il talento è forse l’elemento più difficile da definire: quanto deriva dal patrimonio dell’individuo e quanto deriva dalle condizioni sociali che favoriscono la sua crescita?

Esiste il grande problema delle differenti condizioni di partenza quando si intraprende un determinato ciclo scolastico, essendo l’eguaglianza di quelle impossibile. Ma l’adattamento dell’istruzione – del programma scolastico e della tabella di marcia – agli alunni piĂą svantaggiati, o meno reattivi, è un valido strumento per promuovere la giustizia sociale?  L’intento di tanti che aborrono il merito scolastico deriva anche dalla volontĂ  di operare in senso egualitario all’interno della scuola; ma una attivitĂ  livellatrice condotta nella scuola –  indipendentemente da interventi esterni quali provvedimenti di aiuto economico alle famiglie degli studenti, o organizzativi quali didattiche aggiuntive – non finisce per svalutare l’apprendimento stesso, abbassando l’asticella dell’istruzione? La giustizia sociale necessita sostanzialmente di politiche di natura redistributiva, di interventi di natura economica esterni alla scuola.

In una societĂ  in cui le diseguaglianze impediscono a chi possiede talento di avanzare nella scala sociale, una valida istruzione è un’arma di fondamentale importanza. E tuttavia, nella lotta al blocco dell’ascensore sociale, che è una condizione in cui si trova il nostro Paese, l’acquisizione di livelli elevati di istruzione è un traguardo che non può essere collettivo e di tutti; in una parola, l’egualitarismo di massa negli esiti scolastici è velleitario e irrealistico.  L’esito scolastico di ciascun alunno sarĂ  comunque diverso dall’esito scolastico di un altro.

Tanti individui, provenienti da famiglie di modesta condizione, sono riusciti a manifestare le loro capacitĂ , ad impiegare la loro preparazione per raggiungere importanti obiettivi professionali. Quanto avrebbero potuto affidarsi alla loro preparazione, se questa fosse stata scadente?

Molti insegnanti considerano la scuola soprattutto come ambito di socializzazione e di inclusione.

La funzione socializzante è meritoria, se la intendiamo come insegnamento della tolleranza, come educazione allo spirito di eguaglianza e alla coesistenza delle diversità, razziali o di altra natura.

La funzione di inclusione non deve essere prevalente. Le funzioni della scuola sono apprendimento di conoscenze, esercizio di raziocinio, ma anche selezione delle attitudini. La scuola dovrebbe aiutare gli alunni a riconoscere le loro inclinazioni e capacità, in modo che diventino consapevoli del tipo di attività futura che sia loro congeniale. E non può fare a meno del criterio del merito.

Se assumiamo come criterio dominante l’inclusione, quanto il programma scolastico – detto un po’ brutalmente – deve rallentare, a scapito del diritto o della volontĂ  di apprendere il piĂą possibile da parte di altri alunni?

E allora, quando applicare il criterio del merito nella scuola, in quale fase scolastica? C’è chi sostiene che il merito dovrebbe essere applicato non prima che all’università; però questa soluzione sposta solo il problema, in quanto arrivare all’università con scarsa preparazione scolastica, per esempio con difficoltà a redigere correttamente un testo, pone immediatamente lo studente in una situazione di svantaggio: ed è quello che sta accadendo, come stanno segnalando parecchi professori universitari.

Una soluzione pragmatica può essere tendere ad un equilibrio tra merito ed inclusione, assunti ambedue come obiettivi.   E’ una strada percorribile, demandata alla sensibilitĂ  dei docenti. Presuppone insegnanti preparati e motivati, anche economicamente, dato il loro ragguardevole compito;  a patto che il merito si applichi anche a loro, e che vi sia una politica di reclutamento  contraria a quella che perseguono i sindacati della scuola con le loro ripetute richieste di sanatorie.  Sanatorie che svalutano l’impegno degli insegnanti piĂą coscienziosi.

Esiste inoltre il rischio che l’assenza di competizione nella scuola – competizione in senso positivo, insita anche nel processo di emulazione nei confronti degli alunni piĂą bravi – si infranga successivamente, in una seconda fase della vita, contro la selezione in ambito lavorativo. Selezione cui non si sfugge, qualunque sia il campo di attivitĂ , e che dovremmo fare in modo che si basi sul talento e sull’impegno individuale, anzichĂ© sull’appartenenza politica o sull’affiliazione a consorterie.

L’esempio della scuola di don Lorenzo Milani è sempre valido, fatte le debite differenze con la scuola di massa. Lo spirito di quella scuola era coinvolgere gli alunni in un percorso di riscatto. Un concetto, il riscatto, che verte sulla volontĂ  dell’alunno di affrancarsi dalle condizioni di inferioritĂ  sociale.  Ed è un concetto, l’impegno del singolo, non apprezzato da chi persegue una visione tradizionalmente ideologica, in quanto pone l’accento sull’individuo, anzichĂ© sulla classe.

E’ questo il fascino del messaggio della scuola di Barbiana, che era attiva 365 giorni l’anno: esigeva che gli alunni si applicassero ogni giorno, e offriva una preparazione scolastica basata sulla comprensione delle letture, sulla padronanza della lingua – non solo di quella italiana – che servisse a non soccombere nella competizione sociale.  Si trattava di superare l’asticella, non di abbassarla.  Diversamente da tanta scuola attuale.