Ci sono cascato.
E dedico queste righe di commento alle donne iraniane e ai giovani cinesi per fare ammenda circa un abbaglio forzato che mi riguarda, e in fondo li riguarda. Se devo delle ideali scuse, le devo a loro. La spiegazione da fare per questa premessa è piuttosto complicata, ma ci provo.
Perché ci sono cascato. Ci siamo cascati in tanti a dire il vero.
Putin ci ha chiamato a cimento sulla questione dell’Occidente.
Giuro che all’apparire della guerra in Ucraina non mi era proprio venuta in mente la questione occidentale, forse neppure quella europea. Perché poi ci hanno pensato loro a chiamarmi a cimento, lui, lo zar e il suo scagnozzo Medvedev. Sono loro che ha un certo punto per primi, nel vivo dell’aggressione, hanno dichiarato: questa è una guerra che conduciamo non solo contro l’Ucraina, ma, per interposta persona, soprattutto contro la cultura occidentale, i suoi valori, la sua storia, che desidereremmo annientare. Poi ci si è messa anche la Cina a far capire bene o male da che parte stava e molte altre autocrazie sparse per il mondo, compresa la ‘nostra’ Ungheria.
E ci sono cascato in pieno nella trappola. Come quando qualcuno, parlandone male e con disprezzo, va contro tuo padre; che tu sai essere uomo pieno zeppo di difetti, magari è anche un mezzo fallito, ma santiddio è tuo padre, le tue radici, ti ha voluto bene, a modo suo ti ha anche formato, e quando qualcuno gli va contro ti viene da difenderlo a tutto tondo, tuo padre, senza badare troppo ai difetti macroscopici, che in quel momento comprensibilmente rimuovi e fai fatica a riconoscere.
E allora provocati, non per caso ma per un calcolo dello Zar e dello scagnozzo ci è toccato scendere in campo, perché l’Occidente è dentro di noi, anche di quelli che dicono di no. E alla fine mi sono ritrovato in pieno in quello scontro di civiltà in cui mai avrei voluto combattere; e che, come tante contrapposizioni astratte, fatte di categorie soltanto nominali basate su miti – si pensi per esempio a quella tra fronti politici ancorata ad obsolete categorie spaziali – è una contrapposizione non solo riduttiva, ma anche fondamentalmente falsa; falsa, se è posta come scontro tra occidente e il resto del mondo. La famosa invettiva di Oriana Fallaci, che evocava appunto lo scontro di civiltà, all’indomani delle torri gemelle crollate, era frutto di un comprensibile sfogo, ma ha indirizzato male il riconoscimento dei due contendenti, di cui uno in quel caso contingente era l’Islam, ma potenzialmente, anche, per estensione tutto ciò che non era occidente. E ha, l’Oriana, forzatamente schierato due squadre contrapposte, in ognuna delle quali invece ci sono alcuni giocatori che giocano due partite: quella per la propria squadra, leggasi propria cultura naturale di appartenenza, e quella per la squadra avversaria, di cui sono una sorta di quinta colonna.
E allora mettiamola così, per fare a capirci: se uno scontro di civiltà c’è, non è tra un noi di qua, occidentale, e un voi di là nel resto del mondo, ma scontro trasversale a tutte le aree culturali a livello planetario e quindi anche all’interno dell’occidente; dove una civiltà, o forse un’ in-civiltà, conservatrice, oscurantista, bloccata, chiusa ed esclusiva, elitaria, classista, oppressiva e autoritaria, si oppone a civiltà aperta, libera e potenzialmente egualitaria per le chance di vita (ho detto potenzialmente per chi sta già facendo una smorfia di perplessità). Per l’esito finale e futuro dello scontro, se mai ci potrà essere, vanno scomposte e ricomposte le squadre e ricomposti i fronti reali che vanno individuati nel mare magno della complessità della storia e del presente; quella che quasi tutti semplificano per la comodità della ‘zona confortevole’ del loro pensiero, che si rifà a schemi semplici e banali. Del resto di semplificazioni di comodo si abbonda. Perché c’è sempre una ragione che puoi mettere avanti per qualsiasi cosa.
Quello che sta accadendo in Iran e in Cina è lì davanti ai nostri occhi e dimostra dove sta lo scontro vero e ricomposto. Anche in quei mondi c’è uno scontro interno di civiltà.
L’occidente da cui veniamo ha una storia in cui il fronte che ha dato, e forse continua a dare, luce al mondo intero, quantomeno dagli antichi greci in avanti, si è trovato al suo interno a lungo in minoranza, sovrastato da culture di tenebra. E non è certo, quella occidentale, l’unica cultura ad aver dato luce, perché altri fuochi luminosi si sono accesi nella storia (per inciso: non per caso il nome della testata di questa nostra rivista evoca la luce con una pluralità di fuochi luminosi accesi, e non per caso accompagno sempre le mie righe con un’immagine di fasci di luce che fendono l’ombrosità e il buio). Luce dall’occidente? Senza andar troppo indietro, solo negli ultimi cinque secoli luce è stata la sete di conoscenze che scopre altri mondi, e poi le basi razionali della scienza moderna, applicata a tutte le realtà sociali, le basi razionali della democrazia moderna e del riposizionamento del diritto al centro del potere come garanzia per tutti, il riscatto della soggettività più ancora che dell’individuo. ‘Cose’ tuttavia accompagnate, ed ecco l’in-civiltà al suo interno con cui la civiltà occidentale ha dovuto fare i conti, da nefandezze degne dei peggiori criminali, e parlo di crimini contro l’umanità, l’altra faccia della medaglia. Restando solo agli ultimi due secoli; senza neppure il bisogno di citare esempi, colonialismo e capitalismo – meglio, un certo modo di intendere il capitalismo -, un duplice parto certificato dell’occidente, hanno le matrici indelebili della rapina, dello sfruttamento bestiale di risorse umane e materiali e con punte di vero genocidio. Per il passato. E per il presente la stessa democrazia politica, frutto dell’occidente progressista, langue spesso, tra Europa e America, nella sua in-civile inefficienza, sovente rinfacciata dagli autoritari di altri mondi, a cui si dà un bel pretesto; langue così in spregio alla civiltà della razionalità da cui la democrazia moderna è nata; langue nel prestarsi ai giochi di potere a cui si piega, nell’essere forma e non sostanza, spernacchiata da legioni crescenti di ‘astensionisti’, che non sanno che farsene del mito del voto libero. Una certa stanchezza del mondo occidentale si esprime anche in una pesante, in-civile regressione demografica, in contraddizione con le chance di vita che il suo sistema le dà, e di produzione della vita, che dovrebbero derivare invece da una società aperta.
C’è che ogni mondo culturale ha al suo interno la quinta colonna dell’altro.
La società aperta da una parte e la società bloccata dall’altra hanno al loro interno la quinta colonna dell’altra. E paradossalmente la società bloccata può servirsi delle facoltà e degli stessi principi di quella aperta. Gli Stati Uniti sono l’emblema vivente di questa ambigua possibilità. Non c’è esempio più evidente di quinta colonna interna all’occidente civile dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Il quale si è servito strumentalmente dell’estremizzazione della libertà, cioè del mito liberista in economia, per cercare di imporre una società socialmente bloccata e asservita, autoritaria ed esclusiva, piegando anche la religione alla conservazione più bieca; e certa religione, come ben si sa, sa prestarsi bene. Con lui al potere negli Stati Uniti la questione Russia-Ucraina avrebbe avuto ben altri esiti e sfaccettature, in quanto Trump condivide con Putin esattamente la sua stessa avversione alla libertà e alla democrazia inclusiva. Per cui parlare degli USA in modo generalizzato non ha senso. Perché ci sono gli USA di Obama e di Biden (o se volete anche di Lincoln, Roosevelt, Kennedy, Clinton…) e ci sono gli USA di Trump. Che di fatto avrebbe benissimo potuto sottoscrivere lo stesso odio di Putin per l’occidente, o meglio per la versione aperta della cultura occidentale – perché questo in realtà ha in animo Putin, l’odio per la società aperta. Lui e tutti quelli come lui sparsi per il mondo occidentale. Partiti e forze politiche che al trumpismo/putinismo nei fatti si richiamano, gli Orban e i suoi affiliati italiani, con evidenti conseguenti richiami a forme di sovranismo quasi autarchico, altra negazione di una società aperta e inclusiva. La cui espressione politica concreta per noi si chiama, con tutti i suoi limiti, Europa.
Tanto per esemplificare, magari è solo una utile forzatura, nella Gran Bretagna contemporanea nell’ultimo decennio non abbiamo assistito dal vivo allo scontro di civiltà interno all’isola tra cultura aperta civile europeista e versione british del volgare e in-civile ‘paroni a casa nostra’? E vogliamo parlare dello scontro di civiltà interno al mondo occidentale a cui abbiamo assistito in tutta la fase pandemica degli ultimi tre anni tra gli in-civili negatori irrazionali della scienza da una parte e chi fa della scienza un cardine del progresso della società aperta?
Nella carrellata delle quinte colonne interne al mondo occidentale, venute allo scoperto con la questione Ucraina, verso la quale la tiepidezza nel sostenerla scopriva la ragione di fondo, non posso non ricordare infine anche il ruolo che svolge un certo variegato mondo che si richiama ad una certa sinistra più o meno radicale. Il riflesso pavloviano di certa sinistra europea e occidentale, una parte e non so quanto minoritaria o maggioritaria, anche e a maggior ragione dopo il manifesto antioccidentale di Putin, ha messo a nudo che cosa dell’occidente la infastidisce fuor misura; per cui con l’occidente, in cui comunque vive e vegeta bene e in cui può esprimersi liberamente, non vuole essere identificata. La società aperta che la infastidisce si regge sull’applicazione troppo estensiva della libertà, che ai suoi occhi sotto sotto attenta per vie indirette a quell’ugualitarismo a prescindere che le piacerebbe imporre per legge. Questa avversione strisciante si unisce alla più palese storica avversione agli USA, che non tollera e che non vede, perché non vuole vedere, la differenza sostanziale tra gli USA di Biden e quella di Trump. E’ una differenza scomoda che ostacola l’avversione ideologica agli USA nel loro complesso e che si estende all’Occidente, considerato tutto insieme ‘impero del male’, esattamente come lo considerano tutti gli altri soggetti interessati in giro per il mondo. Fare distinzioni metterebbe invece in contraddizione il cardine dell0ideologia.
In tutto questo contesto complesso e ambiguo, l’aver da parte mia semplificato colpevolmente lo scontro di civiltà tra un noi e un loro, innescato dalla minaccia di Putin, mi ha fatto dimenticare di netto di aver messo indirettamente dentro le società dei ‘loro’ le donne iraniane e i giovani cinesi; che invece agognano la stessa società aperta per cui ogni mattina noi ci mettiamo al lavoro. È esagerato dire che quelle donne e quei giovani sono le quinte colonne a casa loro della società aperta? Sto scrivendo il giorno dopo l’esecuzione di Mohesen Shekari, il giovane iraniano che ha manifestato a favore di quelle donne, e dico che no, non è un’esagerazione. Che cosa vogliano, che cosa rivendichino in Iran le donne è evidente agli occhi del mondo intero. Vogliono anche loro una società aperta, nella quale la legge non intervenga su scelte individuali che non ledono la libertà altrui. Ritenendola del tutto compatibile con la religione che professano, compatibile con la loro ‘civiltà’ islamica, che non mettono in discussione nei contenuti, ma solo per l’uso strumentale che da secoli a intermittenza ne viene fatto. A intermittenza perché ci sono stati momenti storici in cui la cultura islamica è stata maggioritariamente aperta, nelle scienze e nella conoscenza e nella tolleranza per esempio; e, arrivando più vicino a noi, con spinte alla modernizzazione che hanno avuto nella fase immediatamente successiva alla decolonizzazione il momento culminante, non dimentichiamolo. Il nostro Enrico Mattei con quel mondo arabo modernizzante ci dialogava e ci faceva accordi, per esempio, e non di rapina ma di cooperazione. Tutto ciò prima di una regressione fondamentalista, fomentata spesso dallo stesso Occidente per ragioni geopolitiche. [LC1]
Quanto ai giovani cinesi il discorso è più complesso perché formalmente la miccia della loro ribellione è stata la sofferenza per la reclusione autoritaria a cui la popolazione è stata sottoposta in nome dell’emergenza sanitaria. Ma non vorremmo mica credere che i giovani cinesi contestino il principio in sé della lotta ‘scientifica’ alla pandemia come dei Paragone qualsiasi? È lampante che il pretesto sanitario per le autorità cinesi è un modo di esplicare con il pugno duro il controllo sociale nei confronti di una società complessa che sta sfuggendo loro di mano su tutti i versanti, complice l’inevitabile finestra sul mondo esterno che apre la globalizzazione in cui la Cina vuole competere. Questa Cina è nata come comunista, e per quanto mi riguarda del peggiore, quello maoista, che già nei miei vent’anni ho imparato a riconoscere e a combattere, allora ‘da sinistra’, nelle sue versioni biecamente autoritarie (Allora, forse ingenuamente, semmai pensavo già a un altro comunismo). In più, questa Cina pretende di immettere, dentro la cornice di una società autoritaria, che il comunismo di matrice maoista le fornisce costitutivamente, i lati peggiori del capitalismo, come il competitivismo e il produttivismo. Basta e avanza per capire cosa significano quei fogli bianchi esposti da migliaia di giovani cinesi a trentadue anni di distanza da Tienanmen.
Può essere che questa lettura disarticolata dello scontro tra civiltà che ho rischiosamente provato a mettere in campo sia a sua volta riduttivo e semplificatorio e non tenga conto delle molte variabili che non consentono schematismi, per quanto alternativi. Forse anch’io ripropongo miti, con altre vesti. Ogni qualvolta si tenta una lettura un po’ più approfondita di quel che sta accadendo, si trova sempre qualcosa che potenzialmente lo contraddice. E ogni tesi si manifesta in un nuovo mito.
Lo sta a dimostrare la complessità della questione russa.
Si è portati a considerare tutti i cittadini russi come coinvolti e complici di Putin. Tant’è che si fanno operazioni di esclusione quando in Europa per una ragione o per l’altra li si trova, nelle manifestazioni sportive o culturali, come protagonisti indesiderati, a tal punto da allontanarli. Ma è così veramente? Quanto la Russia che lancia l’invettiva all’occidente è a sua volta una costola dell’occidente o lo è stata, e comunque ha mutuato una sua identità anche dall’occidente? Esistono strati sociali in Russia che, dopo un’uscita dalla società sovietica in nome di una società aperta e pluralista, adesso, sentendosi riproporre dal loro padre padrone una linea di chiusura nazionalistico-etnicista, un rinchiudersi nel perimetro della propria cultura, con l’avvallo della chiesa ortodossa, non sono disponibili ad avvallare la crociata contro l’Europa occidentale nella sua versione civile di società aperta? Non è facile dare una risposta, perché in realtà non lo sappiamo. Venissero con maggior impeto allo scoperto, come hanno fatto i dissidenti sovietici mezzo secolo fa, se ne saprebbe di più. Del resto, forse per troppa semplificazione, ho sempre considerato autori classici russi come Tolstoj, Dostoevskij, Cechov degli esponenti della mia stessa cultura occidentale. Sicuramente le loro grandiose riflessioni sulla complessità e la contraddittorietà umana, su una realtà altra da quella contingente e apparente, li ha fatti appartenere a quel pensiero critico che è in linea diretta con la società aperta e con la libertà. Forse tra le pieghe non lo erano del tutto o portavano comunque anche lo stigma di una loro cultura differente, particolare, con caratteri non omologabili del tutto all’occidente. Ma il solo fatto che appartengano a quel flusso universale che non ha confini e che ha formato coscienze e intelligenze di ieri e di oggi, sta a dire quanto Vladimir Putin rinneghi anche quell’eredità, per una mera volontà di potenza. Che frena e non promuove lo sviluppo umano, stando dalla parte sbagliata.

Carlo Rubini (Venezia 1952) è stato docente di geografia a Venezia presso l’istituto superiore Algarotti fino al congedo nel 2016. Giornalista Pubblicista, iscritto all’albo regionale del Veneto e scrittore di saggi geografici, ambientali e di cultura del territorio, è Direttore Responsabile anche della rivista Trimestrale Esodo.