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Il 25 novembre, come ogni anno, si è celebrata la giornata contro la violenza nei confronti delle donne. È una gran fortuna che se ne parli (e che lo si faccia non solo il 25 novembre), che le donne denuncino e che si organizzino grandi manifestazioni con tanto di scarpe e di panchine rosse. Sembrano lontani i tempi in cui si svolgevano i processi in cui una donna, anziché ricevere giustizia, veniva messa alla gogna. Erano tempi bui nei quali era molto diffuso il fenomeno della vittimizzazione secondaria: se una donna osava denunciare i suoi aguzzini, era sottoposta ai ghigni e alle provocazioni di giudici e avvocati che ipotizzavano una sua presunta responsabilità nel danno ricevuto, per il semplice fatto di aver indossato una minigonna piuttosto che i jeans o per essere uscita alle dieci di sera piuttosto che alle cinque del pomeriggio. Certo, passi in avanti ne sono stati fatti e quel senso di paura, mista a vergogna e a sensi di colpa, che quasi quasi impediva di urlare la violenza subita, sembra ormai appartenere al passato, ma la mortalità delle donne per femminicidio è spaventosamente aumentata. Si parla di femminicidio ogni tre giorni in Italia, e questo è di sicuro un fatto inquietante. Nonostante il mutamento di costumi. Anzi, paradossalmente, la maggiore emancipazione della donna e una sua più estesa integrazione nel mondo delle professioni, e financo nei ruoli di potere, sembra aver acuito il disagio di tanti uomini. La qual cosa affonda le radici nella cultura maschilista e patriarcale dalla quale non è esente nessuno e che genera un pesante cortocircuito.

Da dove partire, allora, per prevenire tale disagio? Non è facile rispondere e a tal proposito si possono fare solo congetture, molte delle quali restano pure esercitazioni accademiche. Comunque, è già tanto se ci si interroga sulle ragioni della sciagura e sui mezzi per evitarla.

Tmpo fa, in occasione di un incontro sulla violenza di genere, si è parlato a lungo degli stereotipi di genere e di quello che dovrebbe essere il ruolo della scuola per evitarne la crescita e la diffusione. Soprattutto laddove la famiglia continua, suo malgrado, ad alimentarli. Ciò è possibile (a scuola, dico) solo rapportandosi con maschi e femmine in una prospettiva di parità che non prescinda però da legittime e oggettive differenze. E si fa spazzando stereotipi e luoghi comuni che impongono fissità di ruoli e di attitudini.

In tanti anni di insegnamento ho maturato la certezza che i ragazzi, pur arrivando a scuola con un repertorio di convinzioni e di strutture di pensiero ben definite, sono tuttavia propensi a sciogliere quelle incrostazioni culturali che inibiscono il pensiero critico. Il superamento degli stereotipi di genere non si ottiene con i sermoni, ma permettendo ad ognuno di esprimere, senza paura di essere giudicati e in piena libertà, la propria forza o la propria debolezza, ambizioni e fragilità, inclinazioni e paure, senza differenze di sesso. E mai dando stigmi o etichettando nessuno. Occorre dimostrare, attraverso esempi di vita vissuta o attraverso i modelli di vita offerti dagli stessi insegnanti, l’inconsistenza di alcune regole codificate, di alcune convenzioni culturali che impongono sottomissione e acquiescenza alla donna, forza e determinazione agli uomini. Nelle famiglie spesso vengono stabiliti dei ruoli. Quante volte, durante l’infanzia, un uomo si sarà sentito dire, “su forza, non piangere, sei un ometto”. E quante volte una donna, con riprovazione, “dai, non fare il maschiaccio”. Quante volte, sin dalla più tenera età, a una donna saranno stati imposti comportamenti come l’accudimento, la dolcezza, la sottomissione, l’aiuto alla mamma (cui è deputata la ragazza, ma mai i suoi fratelli, perché è cosa da femmine). Chi l’ha detto che ai bambini si debbano regalare le ruspe e alle femmine le bambole? Chi ha stabilito che femmina è rosa e celeste è maschio? Chi ha decretato che la donna ha il diritto di commuoversi, mentre un uomo non può scoppiare in un pianto liberatorio? E via di questo passo.

Perché la violenza sulle donne si consuma soprattutto tra le mura domestiche? La violenza, come lo stupro, forse ha come movente più che la ricerca del piacere, la volontà per un uomo di affermare la propria potenza. Una potenza frustrata dalla autonomia della donna, dalla sua capacità di compiere delle scelte, dalla libertà di muoversi, dalla libertà di lasciare, se non si trova più nel rapporto con un uomo. I cambiamenti sociali rivelano una nuova categoria di vulnerabilità, quella maschile. Sono uomini incapaci di gestire eventi dolorosi ma normali come le separazioni, impossibilitati a trovare un ruolo. Sentire di non avere un ruolo o un potere genera angoscia, insicurezza e problemi di identità. Da questo nasce il conflitto che spesso sfocia in brutale violenza. Una violenza ancor più esasperata dall’incapacità di molti uomini di confrontarsi, di raccontarsi e di ammettere le proprie debolezze. Perché ritenuto poco virile.

La lotta agli stereotipi di genere è determinante perché è proprio dalle prime esperienze e dai primi messaggi ricevuti, che si struttura il carattere di una persona e si potenziano quegli ammortizzatori che ci aiutano a combattere le frustrazioni. E ad affrontare le emergenze. Tale lotta è un atto che si realizza nei maschi in termini di educazione alla fragilità e al rispetto, nelle femmine come lotta alle paure e come consolidamento della propria identità e del proprio valore. È utopistico? La scuola ha il dovere di provarci. E soprattutto di crederci. Chissà mai che non produca una positiva inversione a questo inquietante trend di morte?