Sono passati i rituali 100 giorni dall’insediamento del Governo uscito dalle votazioni del 25 settembre 2022 che sono andate come sono andate e come era nelle previsioni dei più.
Con l’eccezione del M5S che, grazie all’ennesima operazione trasformista di Giuseppe Conte – novello Zelig della politica – prodotta dal genio della comunicazione Casalino che gli ha fatto assumere le sembianze politiche a metà strada tra il mai dimenticato Che Guevara e il superpopulista (di sinistra) Chavez, ha frenato la sua caduta verticale e nello stesso tempo si è creato uno spazio nel panorama politico come contraltare di un PD sempre più spento e affaticato.
Sottraendo proprio lì la gran massa di voti che gli ha permesso di porsi come il “punto di riferimento dei progressisti” che la straordinaria coppia di strateghi Zingaretti-Bettini, ben supportati dai vari Franceschini, Boccia, Orlando, gli aveva già ritagliato quando ancora pensavano di poterne fare un solo boccone.
E adesso che un CentroDestra, monopolizzato da Fratelli d’Italia e dalla presenza forte e volitiva della sua leader Giorgia Meloni, si è insediato al Governo si stanno aspettando i prossimi passi e i prossimi movimenti all’interno del quadro politico nazionale.
Dal versante della maggioranza c’è poco da aspettarsi, salvo i soliti mal di pancia di quelli che sono usciti “sconfitti” ma comunque vittoriosi nella Coalizione di Cdx.
La Lega salviniana è sicuramente in grande difficoltà perché la sua base non si riconosce più pienamente nelle politiche del Capitano; ribolle e per certi versi farebbe intravvedere persino una mini-scissione di stampo nordista, guidata dal suo vecchio capo Umberto Bossi.
E i suoi Presidenti regionali (i “Governatori”, all’americana) sono al momento ancora lì dietro a coprirgli le spalle limitandosi a fare la parte dei bravi amministratori, ma pronti a prenderne il posto nel momento in cui la caduta non si arrestasse.
In Forza Italia lo smottamento è cominciato già da prima delle elezioni e i pezzi pregiati e ben visibili delle sue ex Ministre nel governo Draghi hanno lasciato gli ormeggi e sono approdate nel Terzo Polo.
Berlusconi la fa ancora da padrone, non solo per il peso economico del suo portato, ma soprattutto per la sua indefessa capacità di saper leggere ancora con una certa lucidità i sommovimenti politici.
Anche se andrebbe detto che il 7% di elettori che hanno votato per questa formazione politica è rappresentato per la stragran parte proprio e solo dai sostenitori fedeli al Capo più che da quelli convinti della proposta politica. Lui ormai ne ha 86 e per quanto gli si possa augurare “lunga vita” è alle battute finali.
Con il che quella formazione politica sarà destinata, giocoforza, a ripensarsi e ricollocarsi, al di fuori dell’ombrello marchiato “Silvio c’è”.
Nel CentroSinistra le cose sono persino più complicate, anche perché il partito di riferimento ha preso una botta da cui non solo non è stato capace di reagire, ma sta ulteriormente perdendo consensi vivendo invischiato in una situazione paradossale in cui la reazione alla sconfitta ha portato all’individuazione di un percorso congressuale lungo, aggrovigliato e poco partecipato. Oltre che incompreso dalla gran parte dell’elettorato di riferimento più che dalla parte militante, che in ogni caso si è andata assottigliando come non mai.
Le spinte interne che ancora non riescono a sganciarsi da una logica di appartenenza correntizia non stanno affrontando i nodi di una discussione politica che dovrebbe rappresentare la quintessenza della sua ragion d’essere.
Più a misurare “chi sostiene chi” che definire “chi sostiene che cosa”.
O al più “con chi fare le alleanze”, per sopravvivere.
E allora scendono in capo i sostenitori del pluridecorato Bonaccini e quelli de “la novità prima di tutto” di Ely Schlein, poi quelli de “la sinistra siamo noi” dell’intellettuale per antonomasia Cuperlo. O per finire quelli del “ci siamo anche noi” di Paola De Micheli.
Zero entusiasmo, distanza siderale dall’elettorato e ancor di più dalla “gente”.
Provate a chieder in giro se “interessa qualcosa?” al di fuori dei circoli ristretti degli addetti ai lavori.
Anche se andrebbe sottolineato come la testata nazionale di riferimento di quest’area (la Repubblica) ha dedicato ampio spazio e ha aperto una sorta di tribuna congressuale nella quale ha raccolto qualcosa come 90 contributi da parte di una vasta rappresentazione dell’intellighenzia progressista.
Probabilmente tempo e generosità sprecata. Come è nella storia di questo PD che ha mancato tutte le occasioni di un posizionamento credibile e “illuminato” fin dal suo esordio. Appena dopo il discorso di Veltroni al Lingotto nel 2007.
Non sono mancati però pronunciamenti in vista dello stanco rito delle Primarie: “se vince questo, se vince quella…non sarà più la mia casa”. Ma al di là di queste parole al vento va però notata una tendenza che smentisce in parte la storia del frazionismo di sinistra.
Dopo le operazioni Bersanian-D’Alemiane, in chiave squisitamente anti-Renziana, con la creazione di Articolo 1 – franato miseramente a percentuali del tutto inconsistenti e adesso pronto ad essere riassorbito – e l’uscita del drappello renziano con la creazione di Italia Viva, che ha saputo invece crearsi uno spazio politico di grande rilevanza – al di là dei suoi numeri assoluti – la morta gora del “tengo famiglia” sembra aver preso il sopravvento all’interno dei malpancisti piddini e nessun reale movimento è alle viste.
Si avverte un gran brontolio di fondo ma alla fine si intravvede un semplice riposizionamento all’interno di quello che possiamo definire il mantenimento degli equilibri di potere delle correnti.
Equilibri di potere ad esclusivo uso interno perché, per la prima volta dopo dieci anni – con la sola parentesi del Governo Conte I – il PD è uscito dalle stanze del Potere (quello vero, quello governativo) nelle quali si era insediato grazie ai Governi di Larga Coalizione, ai Governi di Unità Nazionale, al Governo Draghi, pur non avendo mai vinto un’elezione in quel lasso di tempo.
Il che era invece un collante vero e premiante di una capacità e di una affidabilità politico-amministrativa che faceva il pari con il senso di responsabilità nazionale che ha sempre contraddistinto la storia di quel partito.
Ora siamo invece di fronte a un qualcosa che molti commentatori politici non trascurano di figurare come un declino inarrestabile – andrebbe detto del tutto autogenerato – che potrebbe portare il PD alle soglie dell’irrilevanza, quasi un percorso parallelo a quello del suo omologo francese PS.
Non sarà così, ma il sentiment del declino è forte.
In tutto questo andrebbe esaminato il campo largo che sembrerebbe a disposizione del cosiddetto Terzo Polo – restiamo sempre in attesa di una definizione meno general generica, un po’ più identitaria – proprio per tutte le ragioni che si stanno determinando sia a destra che a sinistra.
Ora la prova elettorale è stata confortante, per certi versi e in certe situazioni territoriali persino incoraggiante: la preferenza del voto giovanile (18>24 anni) oltre il 17%, le grandi città al di sopra del 10%.
Si è proceduto senza intralci alla formazione della Federazione fra le due formazioni politiche di riferimento (Azione e Italia Viva), in attesa che altri possano pariteticamente aderire, in Parlamento si lavora d’amore e d’accordo, la litigiosità e la contrapposizione fra Carlo Calenda e Matteo Renzi è inesistente, si sta traguardando il 2024 con le Elezioni Europee come obiettivo di un forte radicamento e di un consistente risultato elettorale, le proposte programmatiche sono solide, serie, confortate dai numeri, l’opposizione è moderna, dinamica, non ideologica: ti misuro sulle proposte, se sono buone e credibili, posso anche votarle.
La Meloni va giudicata per quello che fa. E per adesso il giudizio è decisamente negativo.
E poi mi posiziono sempre in un campo diverso e distinto: soprattutto sui valori e sui diritti civili e sociali.
Eppure… non ci si schioda da quel 7/8% del 25 settembre.
Cosa manca perché si inneschi la miccia di un consenso più largo e più partecipato?
E’ evidente come la serietà e la credibilità programmatica sia un valore, ma acchiappa l’elettore consapevole, quello informato, quello che bada al sodo e che non si fa prendere dalle promesse o dalle pulsioni populiste.
Quello che serve è mettere mano a processi complessi e incidere sui problemi profondi dell’Italia. Il Paese va rimontato a partire dalla scuola, dalla cultura, dalla formazione e dalla sanità. E queste riforme non sono di destra o di sinistra, sono solo necessarie.
Per questo ci sarebbe bisogno di un grande Partito della Nazione che faccia proprio lo spirito repubblicano del Governo Draghi e che attinga alla classe dirigente capace di gestire e amministrare a prescindere dalla storia delle singole personalità.
Un partito dotato di una solida cultura politica liberale, popolare e riformista, non ridotta ad un’etichetta – destra e sinistra – che oggi viene appiccicata a caso e indipendentemente dalle politiche realizzate.
Ed è su questo che bisogna saper costruire una narrazione diversa, più appassionata e appassionante, una narrazione che sappia raccontare anche i sogni che stanno nei cassetti degli italiani, stando attenti a non cadere nelle promesse a vuoto.
Si può fare.

Veneziano, con i piedi nell’acqua, dalla nascita (1948). Già Amministratore Delegato di una Joint Venture italo-tedesca di accessori tessili con sede a Torino. Esperienze di pubblico amministratore nei lustri passati. Per lunghissimi anni presidente del Centro Universitario Sportivo di Venezia (CUS Venezia)