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Il 1994 è stato l’anno della “grande illusione”: la discesa in campo di Berlusconi preannunciava, infatti, un possibile rilancio delle idee liberali, non solo per quanto riguarda la gestione economica del Paese.
E così, la promessa “rivoluzione liberale” spinse molti cittadini – estranei, fino a quel momento al mondo politico -, a fondare nella propria città un club di Forza Italia, spendendo energie e reputazione, nella speranza che potesse nascere un nuovo fulcro politico, diverso dal pensiero popolare-socialista, diventato dominante dopo la caduta del Muro di Berlino e la stagione di Mani Pulite.
L’illusione non durò però a lungo. Molti dei primi sostenitori e responsabili territoriali furono presto sostituiti da persone vicine al Presidente di Forza Italia; persone, a volte, con minor conoscenza del territorio ma con una formazione aziendalista che assicurava capacità organizzative e, soprattutto, una maggior fedeltà ai principi e ai dettami della direzione del partito forzista.
Cosa successe poi, lo abbiamo letto nelle varie cronache politiche e giudiziarie che hanno riempito i giornali nei successivi vent’anni, durante i quali la direzione di Forza Italia rimase sempre nelle mani del suo fondatore. Il tycoon prestato alla politica riuscì a contenere e a rendere innocue le velleità politiche di molti esponenti di partito che ambivano alla leadership del centro destra, a cominciare da Fini per arrivare, successivamente, a Toti.

D’altronde, anche nell’opposto schieramento politico, non si è notata, comunque, una maggior scalabilità. Al riguardo, si potrebbero ricordare le svariate scissioni che hanno caratterizzato ogni cambio di direzione politica del Partito Democratico. In particolare, penso a quanto accaduto a Matteo Renzi, la cui ascesa politica è sicuramente emblematica, per descrivere le difficoltà e gli ostacoli che si incontrano inevitabilmente, quando si ambisce alla direzione di uno dei più importanti partiti politici Italiani.
Con le sue idee e le sue modalità organizzative, il politico toscano era riuscito a diventare segretario del Partito Democratico conquistando oltre il 65% dei voti e – aspetto non meno importante -, aveva portato i consensi espressi al partito stesso, a superare la soglia del 40%, anche se espressione delle elezioni europee.
Quella del senatore Renzi si potrebbe, dunque, considerare una “scalata” di successo, se non fosse stato che la vecchia classe dirigente del Nazareno, – impaurita dalle novità organizzative e dalle scelte ideologiche che il leader politico fiorentino portava con sé -, non aveva esitato a ordire contro il successo che il PD stava riscuotendo.
In sordina, fomentando divisioni e, in alcuni casi, secessioni e, in fine, opponendosi alla riforma costituzionale presentata dal Partito Democratico, una minoranza in seno alla sinistra riuscì nel suo intento, scalzando il giovane “rottamatore” e riportando il PD alle originarie posizioni conservatrici, quasi massimaliste, che ancora oggi caratterizzano tale compagine politica, arrivata, suo malgrado, a riscuotere il minimo storico dei consensi elettorali.

Ne consegue che, da qualunque lato si guardi la politica Italiana, sembra che uno dei maggiori problemi da affrontare sia proprio la “scalabilità” dei partiti: come può una cordata promotrice di nuove idee e proposte raggiungere il controllo della propria compagine politica, nel rispetto dello spirito democratico, che dovrebbe caratterizzare tutti i partiti italiani?

Tanto più che, questa impossibilità di ricambio dei vertici dei partiti politici e di contendibilità degli stessi, comporta inevitabilmente alcune ripercussioni negative.

In primo luogo – soprattutto negli schieramenti di formazione meno recente -, costituisce motivo del mancato contributo di idee e proposte innovative. Una classe dirigente politica “vecchia” e statica, o, comunque, affermatasi in un alveo culturale conservatore, non ha la capacità nè la volontà di interpretare i cambiamenti repentini della società attuale e, quindi, non è in grado di dare adeguate soluzioni per affrontare e risolvere i problemi del Paese da governare.
In tal modo i problemi rimangono sempre aperti e si continua per anni a parlare di riforma della Giustizia, di riforma del Fisco e della necessaria svolta a favore della libera concorrenza.

In secondo luogo, vincolare la gestione e la direzione di un partito, impedisce il ricambio generazionale e l’afflusso di nuove forze. Poche persone – soprattutto tra i giovani -, sono disposte ad impiegare le proprie energie sapendo che idee e proposte, pur meritevoli, non sarebbero valorizzate a causa dell’ “ingessamento” della struttura di partito.
Il tema è ancora più importante nei partiti di più recente formazione, ancora poco organizzati, dove l’entusiasmo degli attivisti deve essere sostenuto e non ignorato. E, al riguardo, quanto è avvenuto in questi primi mesi in Azione ricorda in parte la storia di Forza Italia, accennata all’inizio di questo articolo .

Infine, se viene precluso l’accesso di nuove persone e nuove idee, tramite un processo di rinnovamento concretamente democratico, si rischia di allontanare la direzione del partito dalle cellule politiche locali e dalle reali esigenze del territorio, rendendo sempre più difficile mantenere il rapporto di fiducia tra eletti ed elettori. Molte sono state le accuse fatte al PD negli ultimi anni: i politici della cosiddetta ZTL sono ormai lontani dalla realtà che i cittadini vivono ogni giorno. Peraltro, non sembra che la Destra attualmente al governo possa dirsi estranea ad analoghe critiche, considerando le battaglie fatte dalla stessa su questioni poco rilevanti rispetto ai reali problemi del paese. Decisioni e prese di posizione intransigenti che sfociano in una inesorabile costante riduzione degli afflussi elettorali.

Stante quanto sopra evidenziato, la prima caratteristica di una forza liberale deve essere proprio la contendibilità e il ricambio periodico dei vertici del partito stesso, nel rispetto dei suoi principi costitutivi.

Questo aspetto è apparso chiaramente durante il convegno tenutosi Sabato 14 Gennaio a Milano dove si è tentato, con successo, di riunire i mille volti della “diaspora” liberale. Molti degli interventi alla Costituente Liberal Democratica hanno sottolineato che se noi liberali vogliamo proporci a sostegno del nascente Terzo Polo, dobbiamo, dunque, porre come vincolo il funzionamento strutturato e democratico della compagine, qualunque forma avrà, pretendo la stesura di uno Statuto chiaro e non aggirabile, che garantisca, tra le altre cose, la contendibilità dei vertici della formazione.